Venezuela, la portaerei nucleare Usa Gerald Ford è già nei Caraibi. E Caracas dispiega oltre 200 mila soldati
- Postato il 12 novembre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Alla fine il gruppo da battaglia della portaerei nucleare USS Gerald R. Ford ha raggiunto l’area controllata dall’United States South Command nel Mar dei Caraibi, completando, uno dopo l’altro, i tasselli dell’assedio al Largo del Venezuela, nonostante le perplessità espresse in tutte le sedi, dalle Nazioni Unite all’Unione Europea, per le implicazioni dell’escalation – dai contorni poco definiti – nell’emisfero americano.
La portaerei nei Caraibi per la guerra al narcotraffico
A dare la notizia è stato lo stesso portavoce del Pentagono, Sean Parnell, su mandato del segretario di Guerra Usa, Pete Hegseth, ribadendo la finalità di “rafforzare le operazioni in corso” al fine di “interrompere il traffico di narcotraffico” e “smantellare le organizzazioni criminali transnazionali”, come il cosiddetto Cartel de los Soles. Stando alla versione ufficiale la presenza della portaerei più grande del mondo, giunta dal Mediterraneo nei Caraibi, servirebbe a potenziare le capacità statunitensi di “identificare, monitorare e disarticolare gli attori illeciti e le loro attività”, che “mettono a repentaglio la sicurezza e la prosperità degli Stati Uniti“. Più generico, l’ammiraglio Alvin Holsey – più volte contrario all’escalation nei Caraibi e pronto ad andare in pensione – giustifica la presenza della portaerei Gerald R. Ford con la necessità di “tutelare la sicurezza dell’emisfero occidentale e del territorio Usa”. Tuttavia la maggior parte della droga che arriva negli Stati Uniti non parte dai Caraibi, bensì dal pacifico, e diverse fonti – persino l’Onu – smentiscono l’eventuale traffico di fentanyl dal Paese sudamericano.
La reazione di Caracas: mobilitati 200 mila soldati
Dal canto suo Palazzo di Miraflores risponde all’assedio annunciando il dispiegamento di 200 mila soldati delle Fanb, le Forze armate nazionali bolivariane, nell’ambito del “Plan Independencia 200”. “Se toccherete il Venezuela ci troverete qui, pronti”, ha ammonito il vicepresidente e ministro della Difesa Vladimir Padrino López, per il quale “c’è un popolo pronto a difendere la Patria fino alla morte”. Padrino López ha inoltre denunciato l’impiego di mercenari per conto degli Stati Uniti e “l’uccisione di persone indifese, siano o meno narcotrafficanti, senza il giusto processo”. Al momento si contano 76 vittime e le operazioni vanno avanti senza l’approvazione del Senato Usa.
Lo scenario: guerriglia e Venezuela ingovernabile
Nelle stesse ore il presidente venezuelano Nicolás Maduro ha annunciato l’istituzione, tramite legge, di nuclei armati in tutto il Paese con la finalità di “pianificare, coordinare ed eseguire” operazioni difensive contro “attacchi interni ed esterni”. Fonti di Caracas sostengono che, di fronte a un eventuale intervento, il Venezuela adotterebbe una strategia di “resistenza prolungata”, attraverso operazioni di “guerriglia, sabotaggio e disinformazione”, volta a compensare l’eventuale svantaggio militare nei confronti degli Stati Uniti. Caracas punterebbe quindi a dissuadere Washington da un eventuale intervento minacciando una condizione di ingovernabilità nel Paese sudamericano, con armi disperse e gruppi irregolari disseminati nel territorio. “A quel punto l’eventuale occupante, gli Stati Uniti in questo caso, farebbe fatica a gestire l’instabilità interna”, sancisce l’analista Andrei Serbin Point. In realtà bastano i venti di guerra a generare disordine. Non soltanto in Venezuela, dove ogni quindici ore viene arrestato un dissidente, ma anche nella vicina Colombia, nella località di Tibú, dove l’Ejército de liberación nacional e le dissidenze Farc – che già si sono espresse contro l’escalation Usa – tornano a sparare mentre Bogotà dichiara l’allerta rossa.
Il rischio della guerra: 9 milioni di migranti. Lula si propone come mediatore
Altro fronte, che potrebbe solo peggiorare, è la crisi migratoria venezuelana, che secondo l’Onu si proietta verso le 9 milioni di persone andate via dal Paese. A loro gli Stati Uniti, che ora agitano le acque, hanno chiuso le porte con le espulsioni di massa e la fine del Temporary Protected Status, lasciando 600mila vite in sospeso.
L’escalation nei Caraibi è stata posta anche al centro del quarto vertice tra UE e Celac (Comunità degli stati latinoamericani e dei Caraibi), che si è tenuto nella città colombiana di Santa Marta, dove è spirato quasi due secoli fa, nel 1830, Simón Bolívar. “Ribadiamo la nostra opposizione alla minaccia o all’uso della forza e a qualsiasi azione che non rientri nel Diritto internazionale o nella Carta delle Nazioni Unite”, si legge nella dichiarazione congiunta, che evita volutamente ogni riferimento agli Stati Uniti.
Fonti consultate da Ilfattoquotidiano.it assicurano il protagonismo del presidente brasiliano Luiz Inácio Lula Da Silva nella proposta. Lula, forte del sostegno del leader spagnolo Pedro Sánchez, si è proposto come mediatore tra Caracas Washington e ha condannato le “vecchie manovre retoriche” volte a “giustificare l’uso della forza” nei Caraibi. Altri meccanismi di pressione giungono dal Regno Unito e dalla Colombia, che sospendono parte della cooperazione in materia di Intelligence con Washington per porre un freno agli attacchi. Il fronte del “no” all’intervento Usa va quindi oltre Pechino e Mosca e spacca l’Occidente. Lo sa anche Trump, che, interpellato da Fox News, dice di non volere un conflitto. Se però succede, la guerra sarà “rapida e violenta”.
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