Una grande mostra al Mart di Rovereto per riscoprire l’arte di Eugene Berman

  • Postato il 20 settembre 2025
  • Arte Moderna
  • Di Artribune
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Viaggiatore, esule, cittadino del mondo, italiano d’adozione: una vita alla ricerca di una casa quella dell’artista Eugene Berman, tra i più talentuosi alfieri del gruppo che il critico Waldemar George definirà dei neoromantici. A Berman il Mart di Rovereto dedica la più importante monografica mai realizzata.  Curata da Sara De Angelis, Denis Isaia, Peter Benson Miller, Ilaria Schiaffini (da una idea di Vittorio Sgarbi ed Elisabetta Scungio), presenta oltre 100 dipinti e altrettante carte dell’artista, spaziando poi nella sua collezione di antichità, documenti e foto d’archivio, raccontandone non solo l’opera ma anche l’affascinate vita divisa tra la Russia, Parigi, gli Stati Uniti e infine Roma, città che divenne la sua casa nell’ultimo periodo della sua vita.

Chi era Eugene Berman

Nato nel 1899 in Russia, a San Pietroburgo, studia tra il 1908 e il 1913 in Germania, Svizzera e Francia. Negli anni della Grande Guerra intraprende studi di pittura e architettura in Russia, per poi essere arrestato nel 1917 come oppositore della rivoluzione bolscevica. Il rilascio ha immediatamente il sapore dell’esilio: Berman viene espulso, con la famiglia, dal Paese e costretto ad emigrare in Francia. Qui studia nella mitica Accademia fondata dal pittore Nabis Paul-Élie Ranson e segue i corsi di artisti come Bonnard o Maurice Denis, partecipando alla vita artistica e al fermento della città, partecipando agli importanti eventi espositivi e al dibattito dell’epoca, sentendo l’influenza surrealista e Nabis. L’adesione al gruppo dei neoromantici (la prima mostra è nel 1926 alla Galleria Druet di Parigi, a partecipare sono Berman con il fratello Léonide, Pavel Tchelitchew, Christian Bérard,; Kristians Tonny e Thérèse Debains) avviene in quegli anni. La loro pittura è sensuale, ma figurativa, erudita e riferita all’antico. Soprattutto quella di Berman segue il ritmo della musica, andando a realizzarsi in serie, attraverso le quali costruire le sue variazioni.

Berman e l’Italia

Gli Anni Venti e Trenta sono contrassegnati anche dal primo viaggio in Italia. Berman attraversa il Veneto, l’Emilia, giungendo fino a Roma. Visiterà negli stessi anni la Toscana e il Sud Italia, lasciandosi coinvolgere al punto da realizzare l’importante serie Memorie d’Italia. Nel 1930 partecipa alla Biennale di Venezia con tre opere. In Italia apprende e fortifica la lezione dei maestri del Rinascimento, l’amore per l’architettura soprattutto di Palladio, la passione per l’antico e per il teatro, tanto che dalla seconda metà degli Anni Trenta si afferma anche come costumista e scenografo. Pittore con lo sguardo rivolto all’antico, ma con il cuore e l’animo moderno è in Italia che si lascia affascinare da Giorgio de Chirico dal quale sarà estremamente influenzato e conoscerà Corrado Cagli che introduce la prima mostra di Berman alla galleria L’Obelisco di Roma nel 1949. Durante la Seconda Guerra Mondiale lascia Parigi e si trasferisce negli Stati Uniti.

Berman negli Stati Uniti

Ma sono anni complessi per Berman. “Negli anni Quaranta, quando erano all’apice della fama e dell’influenza, Berman dovette combattere contro l’ostilità xenofoba e omofoba di Greenberg nei confronti dei neo-romantici”, scrive Peter Benson Miller nel catalogo che accompagna l’esposizione a Rovereto. Molti sono gli artisti in quel periodo che scelgono la via dell’esilio (Miller riporta gli esempi di Arshile Gorky, André Masson, Max Ernst e Marcel Duchamp) negli Stati Uniti per sfuggire all’inasprimento del regime nazista e alla guerra.
“Berman compare con altri espatriati europei in una fotografia che accompagna l’annuncio della mostra Artists in Exile alla Galleria Pierre Matisse nel marzo 1942. (…) Come molti colleghi émigrés che, prima della guerra, erano fuggiti dalle persecuzioni nell’Europa dell’Est e si erano stabiliti nella più tollerante e cosmopolita Parigi, Berman fu esule due volte. A differenza di molti degli artisti ritratti nella fotografia, che hanno trovato una collocazione più sicura nella storia dell’arte americana, Berman rimane tuttavia un outsider. E questo benché Soby, nel 1941, auspicando “trasfusioni di sangue alieno”, avesse suggerito che “l’adozione di Berman e di altri artisti rifugiati avrebbe sicuramente accelerato l’avvento del periodo d’oro della pittura americana”.

Eugene Berman, L’offrande aux Nuages, New York, 1940, Zelenina Collection
Eugene Berman, L’offrande aux Nuages, New York, 1940, Zelenina Collection

Le opere di Civita Castellana

È un momento oscurato dalle ansie, dall’assenza di senso d’appartenenza, dai problemi finanziari, ma anche di grande evoluzione artistica e di introduzione di nuovi importanti elementi nella sua pratica. Il periodo americano è quello che genera maggiori delusioni nell’artista (molti dei suoi sostenitori lo abbandonano), ma è anche quello in cui giunge alle soluzioni più ardite (e probabilmente più incomprese) di una ricerca che attraversa il genere, unisce alla pittura gli oggetti, fino a diventare ambientale, mettendo insieme la lezione surrealista, quella degli studi di architettura, il gusto italiano, la passione per le scenografie e per il teatro, l’amore per gli archivi e per i gabinetti di curiosità (un esempio è il lavoro svolto per la galleria La Boutique). Nel 1958, grazie all’American Academy in Rome lascia gli Stati Uniti per la Capitale italiana, dove finalmente si sentirà a casa. Tanto da lasciare alla sua morte, avvenuta a 73 anni nel 1972, la propria straordinaria collezione di antichità allo Stato italiano, un corpus di quasi 3000 pezzi provenienti da tutto il mondo, esposta poi dopo varie vicissitudini a Civita Castellana (VT) e oggi finalmente tornata ad una splendente luce. Insieme a quasi 60 opere, rimaste fino ad allora inedite e dimenticate.

La mostra a Rovereto

La monografica Modern Classic – e il titolo qui richiama con grande precisione i due poli entro i quali si muove la ricerca dell’artista – restituisce l’anima eclettica di Berman, artista, illustratore, scenografo, costumista. Ne valorizza l’idea moderna, l’afflato surrealista e nabis, l’animo colto da collezionista, le fotografie di viaggio con opere provenienti da collezioni private e museali, dall’American Academy in Rome, da Civita Castellana e dal Mart stesso (al museo l’artista ha donato un importante nucleo). Non mancano opere dei coevi, degli artisti neoromantici, di Cagli, Leonor Fini, Alberto Savinio, de Chirico, scatti di importanti fotografi, costumi, scene, carte. Un monumentale lavoro che ha richiesto il supporto scientifico di critici, studiosi, storici che, insieme agli stessi curatori, hanno costituito un vero e proprio comitato di studio (Gloria Galante, Lindsay Harris, Romina Laurito, Lorenzo Mantovani, Gabriele Quaranta, Eros Renzetti, Martina Rossi, Ilaria Schiaffini, Giulia Tulino), per raccontare una figura complessa della storia dell’arte che finalmente oggi riceve il meritato tributo.

Santa Nastro

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Autore
Artribune

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