Tutti i dilemmi della Trumponomics spiegati da Polillo
- Postato il 16 marzo 2025
- Economia
- Di Formiche
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Prima il pareggio, poi il sorpasso. Il primo shock fu quello del 2016, quello maggiore l’anno successivo. Allora l’America scopri, tutto ad un tratto, di essere diventata seconda. La Cina in termini di Pil – percentuale di quello mondiale – l’aveva superata: 16,6% contro il 15,8. E a pensare che quando la corsa era cominciata – agli inizi degli anni ‘80 – tutto questo era inimmaginabile. Il peso specifico della Cina, allora, era pari al 2% quello degli Stati Uniti (21,5) dieci volte tanto.
Sconcerto quindi tra gli addetti delle grandi banche d’affari, ancora maggiore tra piccoli imprenditori, commercianti e singoli professionisti. Sconcerto che, negli Stati della rust belt (Ohio, Pennsylvania, Michigan, Illinois ed Indiana), una volta cuore industriale dell’America, si trasformava in rancore. Ringraziate Henry Kissinger e Richard Nixon: hanno voluto giocare con il fuoco, pensando di poter dominare il drago cinese per staccarlo dalla Russia sovietica, e invece hanno creato un mostro che sta divorando l’America e non solo.
Il fatto che si fosse trattato di un presidente repubblicano suonava come aggravante. Segno che di quel partito, nella sua normale evoluzione, non ci si poteva fidare. Come si doveva diffidare dei Democratici, con la loro crociata globalista che aveva favorito soprattutto i Paesi asiatici – la Cina in testa – a danno principalmente della classe media americana.
E allora benvenuto Donald Trump animale non politico, soprattutto del tutto estraneo alla tradizione delle élite americane. Anche se quelle critiche erano, in una certa misura, esagerate.
La supremazia cinese è, se così si può dire, soprattutto il riflesso della maggiore popolazione: 1,41 miliardi di abitanti contro i 338 milioni di americani.
Tanti piccoli benestanti, appena usciti dalla fossa del sottosviluppo (reddito pro capite pure corretto per la diversità del potere d’acquisto pari a 26.310 dollari) contro il benessere del cittadino americano che di dollari ne può vantare 86.601. Però vallo a spiegare a chi si sente minacciato da una marea montante?
Tanto più che negli USA era stato sempre così. Negli anni ‘90 era stato Charles Kindleberger (“I Primi del mondo) a ventilare l’ipotesi di un possibile declino americano, per colpa del Giappone. Non a caso altro Paese asiatico, beneficiato, in un primo momento, dalla nouvelle vague globalista. Quel pericolo fu sventato. Con la Cina, osso indubbiamente più duro, si vedrà. Ma quell’incertezza spiega la sindrome trumpiana e, in qualche modo, giustifica la sua parola d’ordine: “MAGA – Make America Great Again”.
Anche se non va dimenticato il plagio. Era stato infatti Ronald Reagan ad usarlo nella sua campagna elettorale. Profezia che si era poi inverata nel crollo dell’Unione sovietica.
Pur prescindendo da questo retroterra, non si può dimenticare che le difficoltà del presente sono oggettive. Oggi gli Stati Uniti sono un gigante dalle incerte prospettive. Non è tanto il deficit commerciale ad impensierire.
Dal 1980, e salvo un paio di eccezioni, c’è sempre stato. Seppur con alti e bassi il deficit delle partite correnti dal 1980 in poi è stato pari a poco più del 2,5% del Pil. Fisiologico. Inoltre più che compensato da un afflusso di capitali dall’estero, che aveva consentito agli States di finanziare una formidabile riconversione produttiva verso la new economy e le tecnologie del domani.
Un nuovo modello di specializzazione produttiva che aveva comportato, inevitabilmente, l’abbandono dei settori meno competitivi della old economy. Che Trump, con la politica dei dazi, vorrebbe ora rivitalizzare. Operazione ad alto rischio e dagli esiti incerti. Nei lunghi anni della globalizzazione, il mercato interno americano è profondamente cambiato.
Il gusto dei consumatori non è più lo stesso. Pensare che, oggi, si possa sostituire una Lexsus con una Cadillac, per parlare solo dell’automotive, è puro atto di fede.
La scorciatoia potrebbe essere quella di imporre la fabbricazione in loco dei modelli più ricercati. Ma anche in questo caso si trascura il fatto ch’essi sono il risultato dell’assemblaggio di prodotti realizzati in varie parti del mondo. Pensare di trasferire negli States le principali catene del valore globale è difficile da concepire.
Da un punto di vista generale, quindi, il ritorno al protezionismo, nel mito dell’autarchia, appare una scelta antistorica, se non addirittura oscurantista. In una fase in cui quelle chain sono già disarticolate, a causa del prevalere degli antagonismi tra le principali aree del mondo, metterci il carico da undici del prelievo forzoso sulle importazioni appare una scelta poco saggia. Si potrebbe replicare che questa potrebbe essere l’occasione per garantire quella sicurezza negli approvvigionamenti, oggi minacciata dal prevalere dei vari imperialismi.
Fosse così, preservare l’unità dell’Occidente dovrebbe essere la preoccupazione principale tra le due sponde dell’Atlantico. Cosa che, almeno al momento, non sembra essere prevalente.
Ed allora perché insistere in una prospettiva dagli esiti quanto mai incerti? Trump trascura di mettere nel conto il costo dell’autarchia. Disastri che l’Italia conosce bene, per averli sperimentati nel corso degli anni ‘30. Rispetto ad allora i costi sarebbero, per la stessa America, mille volte superiori.
La progressiva integrazione economica e finanziaria tra le diverse aree del Globo ha creato un’interdipendenza che non può essere tranciata con un colpo di machete. Tanto più che gli USA, ne sono stati tra i principali beneficiari. Come è facile vedere analizzando alcuni numeri chiave.
La posizione patrimoniale netta sull’estero degli Stati Uniti, secondo lo U.S. Bureau of Economic Analysis, alla fine del terzo trimestre del 2024, era pari a 23,6 trilioni di $. In percentuale all’80% del Pil.
È come se il debito di una qualsiasi azienda fosse pari all’80 per cento del suo patrimonio. Posseduto, tra l’altro, da investitori esteri. Un valore così elevato, secondo i dati del FMI, rappresenta un unicum sui mercati internazionali.
Il Brasile, che si colloca al secondo posto nella top ten dei Paesi più indebitati al mondo, presenta un valore pari a poco più di 1 trilione di dollari (un ventesimo).
I Paesi concorrenti, a partire dal Giappone, presentono invece un forte avanzo (3,3 trilioni). Seguono: Germania (3,2), Cina (2,9), Hong Kong (1,8), Norvegia (1,5) e Canada (1,5).
Federico Rampini, nel recente supplemento a Corriere della sera, ha ricordato che “l’America importa tantissimo ed esporta molto meno. Quindi una guerra dei dazi è asimmetrica: per quanto i Paesi – bersaglio (Cina in testa) vogliono rispondere colpo su colpo, con ritorsioni e rappresaglie, l’America è in grado di infliggere danni molto superiori a quelli che subisce.” Il che è indubbiamente vero.
Lo stesso Mario Draghi, nel suo ultimo intervento sul Financial Times (14/2/25), ricordava che “dal 1999, il commercio (estero) come quota del Pil è aumentato dal 31 al 55 per cento nell’Eurozona, mentre in Cina è aumentato dal 34 al 37 per cento e negli Stati Uniti dal 23 al 25 per cento”. A conferma della prevalenza del mercato interno americano.
La guerra dei dazi avrebbe, quindi, un solo possibile vincitore, se non ci fossero altri elementi a rendere più incerta l’intera partita.
A remare contro i desideri di Trump, potrebbe essere proprio quella dipendenza degli Stati Uniti dai finanziamenti internazionali, che sono poi stati il volano più forte della sua maggiore crescita di questi ultimi anni.
Se il clima recessivo, come taluni paventano, fosse alle porte, anche a seguito di un’inasprita guerra commerciale, perché il resto nel mondo dovrebbe ancora investire su Wall Street? Soprattutto perché l’Europa, che ha dirottato ogni anno 350 miliardi di euro, come ricordato da Enrico Letta verso quella sponda, dovrebbe continuare come se nulla fosse? In una fase nuova, tra l’altro, dove quelle risorse sono necessarie per il necessario riarmo, dovuto alle scelte del presidente americano.
L’incertezza sui mercati, teorizzata fin dal 2024 il FMI, rappresenta, quindi, la principale incognita. Secondo le più recenti valutazioni di Christine Lagarde, presidente della BCE, sarebbe aumentata più di “6 volte rispetto al suo valore medio del 2021” per colpa delle guerre doganali e delle crisi politiche in Ucraina e Medio Oriente.
Le cadute in borsa, con un arretramento tanto del Dow Jones che del Nasdaq, nonché la svalutazione del dollaro rispetto all’euro, sono solo prime avvisaglie.
Certo: troppo presto per parlare di una possibile bocciatura della trumponomics e degli eccessi di Elon Musk. Ma intanto il barometro dei principali centri finanziari segna burrasca.