Trent’anni dopo, la guerra in Bosnia-Erzegovina finisce in una mostra al Mattatoio di Roma

Avevamo creduto, avevamo sperato che la guerra dei Balcani finita trent’anni fa, fosse una disgraziata eccezione nel panorama di pacifica convivenza dell’Europa contemporanea…”. Invece così non è stato e queste parole di Gea Casolaro (Roma, 1965) che commentando la sua opera aprono una mostra titolata “Spazi di resistenza” (fino al 12 ottobre) sono anche la risposta alla domanda che da giorni attraversa questo sito e queste pagine.

La mostra Spazi di Resistenza a Roma

“Cosa possono fare gli artisti in questo tempo di guerra e di sterminio di un popolo?”
Forse quello che fece Gea a Sarajevo, un’opera che diventa un gesto politico nel distribuire poster con l’immagine di un soffice prato verde sui quali è stampato l’avvertimento “a Sarajevo durante l’assedio dovevi aver paura anche dell’erba. Ogni piccola aiuola poteva nascondere una mina”. 
Poster che ora, uno accanto all’altro sulle vaste pareti della prima sala del padiglione B del Mattatoio a Roma (mai mostra incarnò più tristemente l’antica funzione di questo sito) aprono una riflessione sulla guerra dei Balcani e sull’orrore che trent’anni fa attraversò le coscienze con il suo carico di massacri, campi di sterminio, pulizia etnica, stupri di massa e fosse comuni. Lo stesso orrore che oggi, al di là delle acque del Mediterraneo, si ripete svegliando le coscienze delle persone contro l’opportunismo dei governi.

Arte e sistema dell’arte: il conflitto e gli artisti

Ma torniamo a noi e alle domande sollevate su Artribune dagli editoriali di Christian Caliandro: un ripetuto “j’accuse” contro l’indifferenza del sistema dell’arte e la debolezza delle voci degli artisti. Qui invece troviamo voci forti che ci riportano alla memoria di un feroce conflitto risvegliata da Benedetta Carpi De Resmini che chiama a sé un nucleo di artiste (tutte donne perché è sul grembo femminile che poggia il gomitolo della memoria) a parlare di guerra partendo dal trauma, dal tentativo di cancellare i simboli e le tradizioni di un popolo. Partendo anche dalla geografia e facendoci camminare idealmente sulle rive del fiume Drina che scorre lungo il confine bosniaco e che Simona Barzaghi ricostruisce qui a tappe e rosso come quel sangue che trent’anni fa colorò le sue acque, in un paesaggio punteggiato di racconti che dal racconto si consolidano in Storia.
Perché è storia vissuta quella che vibra in questa mostra fino a incidersi come un tatuaggio persino sul corpo dei figli e dei nipoti, come insegna Šejla Kamerić (Bosnia, 1976) in Bosnian Girl autoritratto in forma di installazione che nasce da un insulto sessista scritto da un soldato Onu sul muro di una caserma (“Niente denti… baffi… puzza di merda … ragazza bosniaca”). Opera che trasforma l’offesa in risposta politica, valida ieri come oggi.

Spazi di Resistenza al Mattatoio di Roma, le opere in mostra

Le ferite attraversano le generazioni, le cicatrici restano sulla terra, mai completamente sepolte. 

Ovunque mi trovi ogni settembre ritorna molto chiaramente una certa immagine: è l’inizio dell’autunno, i raccolti sono dorati, la terra è secca. In lontananza si alza del fumo, il vento porta con sé l’odore delle piante bruciate”. Potrebbe essere un’immagine agreste, campi che vengono bruciati per essere di nuovo seminati, ma nella mente di Mila Panić il fuoco delle sterpaglie rievoca ben altro. Ed è così anche per noi, di fronte a questo video che pur innocente nel contesto di queste opere che si richiamano una all’altra, non ci rimanda a poetica vita rurale, ma porta venti di guerra. 
Sono ancora qui quei venti, nell’odore di carte artigianali appese alle pareti. Dei veri sudari tessuti con ortica, erbette e foglie secche che Smirna Kulenović (Bosnia, 1994) ha raccolto sui terreni dove furono scavate fosse comuni e che ora una pietosa natura ha trasformato in campo selvatico e incerto. 
E ci racconta: “Siamo seduti su un tappeto mangiando pita bosniaca in un campo di fiori gialli. Abbaglianti. Dico a mia nonna:” i fiori sono troppo forti, vedo fantasmi sul terreno”. Lei sorride scrollando via la mia paura infantile. “La guerra è finita” sussurra. Qualche anno dopo mi chiederanno di identificare il corpo di mio zio, dimenticato, sepolto sotto il nostro campo di fiori gialli”.
I fantasmi non scompaiono facilmente. Restano dentro di noi. Tornano nei sogni. Cantano persino il dolore, come nell’opera più forte e intensa di questo percorso dove Smirna ci costringe a inginocchiarci di fronte a un tumulo di terra nera e accostare l’orecchio a uno dei fori scavati in questa tomba per ascoltare antichi canti bosniaci intonati da anziane voci di donne. 
Ed è nel rito, in questo arcaico gesto di genufletterci e inchinarci di fronte alla nuda terra e ai dolori che conserva, che tocchiamo l’essenza di un trauma ma anche la potenza di un simbolo che può arrivare da un’opera.

A cosa serve l’arte contemporanea

Ecco a cosa serve l’arte, a superare una soglia, a turbare nel profondo, a rievocare, a saper sollevare il “terribile” con un impasto di fiori secchi o un fumo che si solleva da una boscaglia. Serve a osservare una donna che accucciata sul pavimento lo pulisce freneticamente con candeggina per ricostruire una bandiera fatta a pezzi e capace di opporsi a quell’odore di disinfettante e di cancellazione di ogni macchia di sangue che arriva dal cloro. La bandiera è bosniaca ma potrebbe essere quella palestinese o quella italiana insultata dal fascismo come nei ricordi di questa artista/performer, Romina de Novellis (Napoli, 1982) nipote di operai partigiani che vive la resistenza come un dono di famiglia.
E accanto alle opere arrivano anche le parole della curatrice Carpi De Resmini a sottolineare il compito etico e non solo estetico che spetta all’arte e agli artisti. “Questo progetto” ci dice “non si propone di raccontare una guerra, né di fossilizzarsi nella memoria, ma di rendere visibili i segni di una resistenza profonda, incarnata e quotidiana che attraversa corpi gesti e paesaggi. È la resistenza di chi, come le artiste in mostra, ha trasformato la vulnerabilità in forza, l’assenza in presenza, il dolore in atto poetico e politico. In un mondo che si muove verso nuove forme di militarizzazione, di controllo, di cancellazione delle differenze “Spazi di resistenza” intende porsi come un invito ad abitare lo spazio in modo radicalmente diverso. Queste artiste non propongono soluzioni, né proclami ma pratiche del sentire, una politica dell’ascolto, una geografia dell’empatia, un’etica del radicamento”.

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Spazi di Resistenza, Mattatoio, Roma, 2025. Courtesy Latitudo Art Projects © Monkeys Video Lab

Arte e propaganda

Ecco la risposta alla domanda: “Cosa può fare l’arte di fronte alle minacce, alle turbolenze e ai massacri che abbiamo di fronte ogni giorno?”. Quello che l’arte dovrebbe fare sempre, attraverso il suo linguaggio fatto di immagini e simboli che partono dalla realtà e oltrepassano la realtà rendendola più vera e vivida. L’arte non è propaganda, l’arte non è fatta di proclami, l’arte non discute le idee ma può modificare nel profondo la percezione e toccare le radici del giudizio. Come accade qui dove all’improvviso di fronte a tanto forti testimonianze che arrivano da una guerra dimenticata o relegata sullo sfondo per colpa di nuove guerre altrettanto feroci, l’arte non usa l’artificio anestetico per portarci altrove, ma ci mette di fronte a una quasi insopportabile verità e ci costringe a reagire.

Alessandra Mammì

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L’articolo "Trent’anni dopo, la guerra in Bosnia-Erzegovina finisce in una mostra al Mattatoio di Roma" è apparso per la prima volta su Artribune®.

Autore
Artribune

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