Tra i boschi delle Alpi devastati dal bostrico, l’insetto letale: “Battaglia già persa”. L’esperto: “Con la crisi climatica epidemie di altri insetti”
- Postato il 13 agosto 2025
- Ambiente
- Di Il Fatto Quotidiano
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“Vedi quel segno nella corteccia? Significa che l’albero è condannato, e chissà quanti lo saranno a breve tra quelli che lo circondano”. Il guardaboschi indica una piccola ferita che taglia in senso perpendicolare il tronco. Un occhio inesperto non ci farebbe nemmeno caso. Eppure significa, nella maggior parte dei casi, una sola cosa: morte. Il guardaboschi e il direttore forestale si consultano brevemente, il primo afferra un’accetta e inizia a segnare una decina di abeti rossi. “Così gli operai sanno che sono malati e che vanno tagliati”. Quassù, a 1.400 metri di quota, corre il confine tra le province di Trento e Bolzano: dalla Lombardia orientale al Friuli-Venezia Giulia, il bostrico sta distruggendo i boschi di peccio. E lo sta facendo con effetti devastanti: in circa quattro anni ha causato più danni della tempesta Vaia. Vale a dire – dati aggiornati al 2024 – circa 38mila ettari. Per avere un’idea: l’estensione del Lago di Garda. E il problema è che non c’è modo di fermarlo.
I GIOCHI OLIMPICI E L’EMERGENZA AMBIENTALE – Cavalese, in Val di Fiemme, è un paese di montagna con pochi eguali al mondo: i palazzi nobiliari e dell’alta borghesia che troneggiano lungo le strade sono il simbolo di una ricchezza antica; una ricchezza che deve il suo enorme successo al commercio del legname. Ma camminare per le vie del centro, e percorrere poi la statale che costeggia il fiume Avisio e porta in Val di Fassa ha un che di surreale. I fianchi della vallata, soprattutto lungo la destra orografica, sembrano bombardati: intere porzioni di boschi schiantati prima da Vaia e poi dal bostrico (nome scientifico, ips typographus), con gli abeti rossi resi scheletri grigio-ferro, pronti a marcire al suolo. Da monte a valle è un via-vai di camion carichi di tronchi “azzurrati”, come dicono qui; vale a dire, intaccati dal piccolo insetto. Tuttavia sculture e stendardi delle Olimpiadi 2026 tappezzano la valle: da Castello di Fiemme a Predazzo – dove sono in corso i lavori per i trampolini – passando per Tesero. Tra sette mesi i Giochi la invaderanno per le gare di sci di fondo e di salto: le scuole saranno costrette a chiudere, la viabilità verrà sospesa ma c’è chi si sfrega le mani, perché l’affitto di una camera, per una settimana, vale 3-4mila euro. Duemila a 30-40 minuti di auto, come in Val di Cembra. E non è finita: il Comune ha dato il via libera alla costruzione di un villaggio turistico accanto alla cabinovia Alpe Cermis. Per tirarlo su, vanno spazzati via sei ettari di bosco.
Il senso di estraniamento è reso ancora più tangibile se si trascorre un pomeriggio con Andrea Bertagnolli. Da tre anni Bertagnolli dirige l’ufficio tecnico forestale della Magnifica Comunità di Fiemme (che riunisce i Comuni, o Regole, come dice il loro statuto, della Val di Fiemme, a cui si aggiungono Moena e Trodena, in Alto Adige) ma vi lavora da 23 anni. “È dal 2018, da dopo la tempesta Vaia, che non vado in ferie. So che è un termine abusato, e coi tempi che corrono non troppo opportuno, ma almeno rende l’idea: per quanto ci riguarda, siamo in guerra da sei anni”. Qui Bertagnolli è un’istituzione. Parla in modo sicuro e appassionato, ha un forte senso pratico e viene bersagliato da decine di telefonate di lavoro. È appena tornato da un sopralluogo in elicottero organizzato dalla provincia di Trento, alle prese col monitoraggio del bostrico: “Abbiamo individuato una zona problematica, verso il Passo Manghen, in cui è necessario avviare l’esbosco. Ma intervenire lì è complesso e la prima ditta che abbiamo contattato per fare i lavori si è tirata indietro. Ne dobbiamo cercare un’altra”. Con lui e il guardaboschi (o custode) Andrea Dal Castello, visitiamo l’area sopra Cavalese, il Parco Naturale Monte Corno. Qui i danni causati dal bostrico sono evidenti, ma già si tocca con mano il lungo e faticoso lavoro della Magnifica Comunità: esbosco, dove si può e dove si decide di farlo (a volte si lascia che la natura faccia il suo corso), e rimboschimento. Grazie al vivaio di Solaiolo gestito da Elisabetta Zanetti, che conta circa 100mila piantine, i nuovi alberi vengono messi a dimora con un approccio selvicolturale diverso rispetto al passato: non più solo abeti rossi (l’unica specie attaccata dal bostrico) ma anche larici, abeti bianchi, cirmoli, betulle e faggi. E con formazioni disetanee: “Riproduciamo ciò che accade in natura – spiega Bertagnolli – così diamo vita a boschi più forti e resistenti”.
NON SOLO BOSTRICO: IL FUTURO DELLE ALPI (E DELL’ITALIA) – Il problema, infatti, è che con la crisi climatica gli eventi estremi come la tempesta Vaia saranno sempre più ricorrenti. Ma non solo. La stessa pandemia di bostrico – di per sé endemico e con una funzione positiva di rigenerazione degli ecosistemi – è frutto dei cambiamenti climatici. La siccità e le alte temperature, tanto in inverno quanto in estate, favoriscono la sua proliferazione. Massimo Faccoli è entomologo dell’Università di Padova, tra i maggiori esperti al mondo di bostrico e membro del tavolo tecnico nazionale istituito per fronteggiare l’emergenza. “L’infestazione, rispetto agli anni scorsi, fortunatamente sta subendo un calo – spiega – ma è sufficiente un inverno senza neve, che indebolisce gli abeti rossi, unito a un’estate particolarmente calda, ed ecco che l’epidemia può accelerare“. Nel suo studio, le cui pareti sono tappezzate di immagini di volatili, specie di piante e insetti, ci sono i suoi collaboratori: Giuseppe Morgante e Aurora Bozzini. Entrambi si occupano di monitoraggio: il primo studia il modo attraverso cui l’ips typographus sceglie gli alberi da infestare rispondendo agli stimoli visivi; la seconda, grazie a un complicato sistema di droni e telerilevamento, individua gli abeti rossi appena attaccati o quelli indeboliti (e che quindi, con buone probabilità, saranno preda del bostrico).
“Ieri è stata Vaia, oggi il bostrico ma domani potrebbe esserci qualcos’altro” dice Faccoli. Secondo le sue previsioni, i boschi di abeti rossi, sulle nostre Alpi, nei prossimi decenni sono destinati a scomparire. “Succederà per quelli che risentiranno maggiormente della crisi climatica, ovvero sotto i 1.000-1.100 metri di quota“. Ma per Faccoli c’è dell’altro: “I nostri boschi sono sempre più deboli, sempre più vecchi e con una superficie in continua crescita. Ciò accade perché vengono gestiti sempre meno e perché, anziché tagliarli, si preferisce importare il legname dall’estero a minor prezzo. In questo contento, esistono diversi insetti parassiti potenzialmente pericolosi, che da un momento all’altro possono dare avvio a un’epidemia come quella di bostrico. Epidemia resa più semplice e distruttiva dai cambiamenti climatici, che permettono agli insetti di riprodursi con maggiore facilità”. Insomma: “Boschi fragili da una parte e temperature sempre più calde costituiscono un mix esplosivo per nuove infestazioni su vasta scala”. Faccoli rivela che l’emergenza dell’abete rosso “è solo la più evidente degli ultimi anni, ma ci sono altre formazioni forestali potenzialmente a rischio”. Qualche esempio? “Moltissimi tipi di pinete sia in ambiente alpino sia in ambiente mediterraneo stanno scomparendo. E per restare ai parassiti del legno, c’è un parente stretto dell’ips typographus, il bostrico acuminato, che attacca il pino silvestre. Poi c’è il blastofago dei pini, che attacca i pini mediterranei in tutta l’Italia Centro-meridionale e in altri Paesi del Mediterraneo”.
TORBIERE, TRAPPOLE E ALBERELLI – La Magnifica Comunità di Fiemme gestisce dai 15 ai 20 cantieri impegnati nell’esbosco di peccete. Dal 2021, da quando è iniziata l’epidemia, tagliano solo abeti “azzurrati”, cioè destinati a morire. Il danno economico per la filiera del legno è enorme, se si tiene in considerazione che un metro cubo di abete “sano” viene venduto a 450 euro, mentre quello infestato a 350 euro. Ma naturalmente non c’è solo quello. Le peccete infestate vanno abbattute anche per contenere la proliferazione dell’insetto e per permettere il rimboschimento quanto prima. “Di fatto – spiega Bertagnolli – anticipiamo ciò che la natura, da sola, farebbe in 20-30 anni. Perché lo facciamo? Perché i boschi, una volta cresciuti, tornino a garantire i loro servizi ecosistemici, vale a dire il ciclo idrogeologico, la mitigazione del clima, la protezione del suolo, l’aumento della biodiversità, l’arricchimento del paesaggio e la funzione ricreativa. E, ovviamente, la produzione del legname”. Prima Vaia e poi il bostrico hanno distrutto circa 3-4mila ettari di abetaie, che corrispondono a circa la metà del patrimonio della Comunità (solo in Trentino il bostrico ha fatto cadere poco meno di 13.500 ettari di peccete contro gli 11.500 di Vaia). In questi anni la Comunità ha rimboscato 200 ettari, per un costo di quasi 850mila euro, finanziati per il 75% dai privati, mentre la parte restante è stata coperta da Provincia di Trento, Bolzano e Unione europea.
Lungo la strada che sale al Monte Corno facciamo tappa in località Lago Nero, un’oasi di biodiversità a 1.600 metri di quota con tanto di torbiera. Lì vicino c’è una trappola di feromoni, utile per il monitoraggio del bostrico: il guardaboschi Dal Castello la apre, all’interno ci sono pochi insetti. “È un buon segnale – commenta Bertagnolli – ma da noi l’infestazione non è rientrata, procede a macchia di leopardo. Per esempio in Val Cadino la situazione è fuori controllo, anche nei boschi di Paneveggio e nel Primiero i danni sono parecchi”. Più in basso si vedono gli alberelli di un’area di 20 ettari rimboscata grazie all’intervento di un’azienda privata: a camminarci dentro le cime di betulle, aceri e sorbi degli uccellatori ti sfiorano il busto. Il processo di conversione dei boschi è lento. Così lento che i benefici del lavoro di oggi saranno significativi tra 80-100 anni. Un tempo infinito per l’uomo (e la politica) di oggi. Il tempo necessario per la natura.
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