The Rocky Horror Picture Show: torna in sala restaurato il film che non è mai uscito di scena
- Postato il 29 ottobre 2025
- Cinema
- Di Il Fatto Quotidiano
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“It’s not a movie, it’s a way of life”. Cosa sia stato il fenomeno culturale cinematografico The Rocky Horror Picture Show lo spiega un dato curioso: lo scorrere del tempo. Se in questi giorni, a 50 anni dalla prima uscita del film a Londra, torna nei cinema italiani una copia restaurata in 4k dalla Cineteca di Bologna dell’iconico musical ideato da Richard O’Brien e diretto da Jim Sharman nel 1975, The Rocky Horror Picture Show rimane l’unico film al mondo di cui non si è mai smessa la programmazione. Facciamo qualche passo indietro con l’aiuto del documentario The Strange Journey: the story of Rocky Horror, diretto dal figlio di O’Brien, Linus, uscito nelle sale anglosassoni a fine settembre, con una capatina sempre a Bologna, al cinema Modernissimo.
È mister Richard O’Brien in persona, oramai vecchiotto ma sagoma sottile e vulcanica inconfondibile di quel maggiordomo Riff Raff tra i caratteri cruciali del Rocky Horror, a raccontarci la genesi di un successo letteralmente inesauribile. O’Brien è il creatore dell’intera operazione quasi per caso. Tempo di musical teatrale, allora, quando il segaligno neozelandese sbarca il lunario nella swinging London. Tanto che O’Brien appare sia nella versione teatrale di Hair (1970) che di Jesus Christ Superstar (’72), dove conosce il regista Sharman.
Niente versione cinematografica però per il giovane attore, ballerino e cantante. Ma O’Brien ha una cosa che gli frulla in testa. Imbraccia la chitarra e si inventa un mondo, una specie di squarcio underground camp, distopico (“c’è tanta scenografia e atmosfera di fantascienza di serie B”) e transessuale, un cinema “tra Jarman e Warhol”. Il Rocky Horror Picture Show nasce così, per i palchi teatrali londinesi e lì a breve troverà uno spazio e un successo importanti, tanto da mettere in cantiere la classica versione cinematografica usando, e risparmiando, letteralmente cast tecnico e artistico avuti a teatro, in primis quel Frank-N-Furter/Tim Curry che si fonderà in eterno nel protagonista en travesti del film. La versione cinematografica esce in sala sulla scorta dell’entusiasmo della versione teatrale, ma pur rientrando subito dei costi di una produzione indipendente (un milioncino di dollari di allora) non fa immediatamente sfracelli.
The Rocky Horror Picture Show diventa film di culto nelle settimane e negli anni a venire, post 1975. In pratica non esce mai dal cartellone nei successivi cinquant’anni. C’è sempre una sala nel mondo, da allora, che lo programma. In Italia, ad esempio, è stato e continua a essere il Cinema Mexico di Milano del compianto Alberto Sancassani. Ora, la deliziosa rievocazione dei tempi che furono riprodotta nel documentario con i live casalinghi di O’Brien alla chitarra e Richard Hartley alla tastiera fanno commuovere, ma chi vuole precipitarsi e (ri)scoprire uno strambo oggetto cinematografico, che solo allora, in epoca di radicalismi creativi, poteva nascere, la possibilità si raddoppia e triplica nel numero di sale disponibili. Garantito però è sempre l’accompagnamento dal vivo dei numeri musicali, nonché il dress code obbligatorio “costumi dal film” come accade, appunto, da 50 anni in ogni proiezione del mondo, da quei fan che continuano a sbocciare vestiti e truccati come i loro beniamini.
Anche perché per la cultura contemporanea woke dell’area anglosassone il Rocky Horror viene spesso usato come manifesto transgender, utilizzando l’anelito libertario del travestitismo transessuale del film, che però ha una base più kinseyana che ideologica, proprio come fa nel documentario O’Brien, dichiaratosi fin dall’epoca del film come trans, primariamente nel modo di vestire e senza mai operarsi, venendo anche criticato perché ha sempre sostenuto che non si può diventare donna chirurgicamente se non lo si è biologicamente. O’Brien evoca la celebre scala di Kinsey sull’orientamento sessuale, un continuum con a un estremo l’eterosessualità e dall’altro l’omosessualità, dicendo: “Io sono nel mezzo”.
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