Subic Bay, così Usa e Corea puntano sui cantieri navali filippini
- Postato il 8 settembre 2025
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- Di Formiche
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Il cantiere navale di Subic Bay, l’ex grande base navale statunitense nelle Filippine, dismessa negli anni 90 dopo l’uscita delle forze americane, è stato ufficialmente riaperto dopo anni di inattività. La rinascita è stata resa possibile grazie a un pacchetto di investimenti congiunti che vede protagonisti capitali sudcoreani e un forte interesse statunitense, inserito in una cornice di cooperazione più ampia con Manila. La struttura, oggi ribattezzata Agila Subic, torna a essere un polo strategico sia per la costruzione sia per la manutenzione di navi commerciali e militari, con l’obiettivo di rafforzare la capacità cantieristiche regionali e sostenere le flotte alleate. Oltre al rilancio industriale, il sito si configura come hub logistico e di supporto, pronto a ospitare attività legate a rifornimenti, riparazioni e stoccaggio, restituendo così a Subic un ruolo cruciale nell’equilibrio marittimo dell’Asia sud-orientale.
Perché Washington investe nel Pacifico?
La riapertura di Subic non è un caso isolato, ma parte di un quadro strategico molto più ampio. Negli ultimi anni gli Stati Uniti hanno finanziato, facilitato o incoraggiato investimenti in infrastrutture militari e industriali dei partner nell’Indo-Pacifico: dall’ammodernamento delle basi in Giappone (con il rafforzamento del comando congiunto US-Japan), allo sviluppo di grandi hub logistici come Guam, fino all’espansione degli accessi miliari nelle Filippine attraverso l’Edca. Queste mosse sono collegate a programmi e stanziamenti, come il Pacific deterrence initiative, pensati per aumentare presenza, resilienza logistica e capacità di deterrenza nella regione.
Primo, la logistica e la predisposizione. Avere cantieri, depositi e magazzini alleati riduce i tempi di rifornimento e la vulnerabilità delle flotte in caso di crisi. Secondo, la capacità industriale alleata. Sostenere cantieri in Corea del Sud, Filippine o Giappone significa costruire una catena produttiva diversificata di navi, munizioni e pezzi di ricambio, in grado di assorbire shock produttivi e rifornire gli alleati in scenari prolungati. In pratica, si cerca di creare scale produttive distribuite fuori dagli Stati Uniti e, dove possibile, trasferire tecnologia e ordini. Terzo, la deterrenza geopolitica. Investire in infrastrutture a ridosso dei mari contesi, come il mar Cinese Meridionale e le rotte verso Taiwan, serve a complicare i piani di controllo locale di Pechino. Tenere sotto osservazione e accesso i choke-points, come lo Stretto di Malacca o il corridoio del mar Cinese Meridionale, è tuttora centrale per chi deve garantire libertà di navigazione e proteggere supply-chain energetiche e commerciali.
Perché tutto questo non viene sospeso a favore di Medio Oriente o Ucraina? Perché la competizione strategica con la Cina è strutturale e di lungo periodo. La potenza navale, i missili anti-access e la capacità di interrompere rotte marittime rendono l’Indo-Pacifico un teatro dove il tempo per prepararsi e distribuire capacità può fare la differenza. Così mentre gli Stati Uniti sono impegnati altrove, investono anche ora per non trovarsi domani senza basi, cantieri o scorte vicino ai possibili punti di frizione.
Infine, c’è un trade-off politico ed economico per i Paesi ospitanti. Opere che portano lavoro e tecnologia, come a Subic, aumentano la resilienza industriale, ma espongono anche i governi a rischi di essere percepiti come attori coinvolti in un possibile confronto tra grandi potenze. Il nodo rimane quindi politico, bilanciare benefici economici, sovranità e la possibilità di diventare un obiettivo strategico in scenari di escalation.
Se Subic diventa davvero un asse logistico-industriale stabile, sarà un indicatore forte di quanto gli alleati intendano non solo cooperare politicamente con Washington, ma anche costruire insieme la capacità materiale per affrontare, o prevenire, le crisi nel Pacifico.