Siria, un anno dopo la caduta di Assad: Al Sharaa deve evitare che il Paese venga divorato dalle lotte confessionali
- Postato il 8 dicembre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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La Siria continua ad esistere, anche dopo la caduta del regime guidato da Bashar al Assad. Era la mattina di un anno fa, l’8 dicembre 2024, quando dai minareti di Damasco, al posto del richiamo alla preghiera dell’alba,era risuonato l’annuncio “il dittatore Bashar al Assad è caduto”. Ahmad al Sharaa, a capo di Hayth tahrir al Sham, l’ultima evoluzione dell’al Qaeda siriana, aveva messo gli scarponi sul suolo della capitale. Le immagini del capo dell’organizzazione islamica che guidava il fronte della ribellione contro la dittatura della famiglia al Assad, al potere ininterrottamente da 54 anni, avevano fatto il giro degli schermi delle tv panarabe.
Al Sharaa, allora conosciuto con il suo nome di battaglia Abu Mohammad al Jolani, si genufletteva baciando la terra. La Siria che per mezzo secolo aveva governato le vite della popolazione era scomparsa, improvvisamente. In meno di due settimane, dalla roccaforte nella regione di Idlib, l’avanzata dei ribelli era stata inarrestabile e l’esercito fedele al regime si era sgretolato. Tutto il sistema di sicurezza, come i reparti dei famigerati servizi segreti, era scomparso. “La Siria sarà come l’Afghanistan, ora che un fondamentalista ha preso il comando” si erano affrettati a commentare diversi analisti. Ma a distanza di un anno possiamo tracciare un bilancio.
Ahmad al Sharaa, auto proclamato presidente della nuova Siria, è riuscito ad accreditarsi sul piano internazionale. A settembre il presidente siriano si è recato a New York e ha parlato al Palazzo di Vetro, segnando un nuovo record: è il primo capo di stato del paese mediorientale a tenere un discorso durante un’Assemblea generale dell’Onu dal 1967. Ma la catena di successi non si ferma qui. Smessi i panni del fondamentalista, accorciata la barba e cambiato i vestiti da guerrigliero, ha indossato un abito in giacca e cravatta convincendo Donald Trump di essere il suo nuovo alleato nella regione. “It is a tough guy – è un tipo duro – but is good”, ha detto il tycoon. Questa liaison ha spinto gli Stati Uniti a rimuovere le sanzioni economiche contro la Siria in vigore da oltre un decennio per fiaccare il regime di Assad. In aggiunta, anche le restrizioni verso gli uomini della cerchia di Al Sharaa, accusati dagli Usa di terrorismo, sono state rimosse.
“Vogliamo costruire un paese per tutte le confessioni, una Siria dei siriani” ha sempre rassicurato al Sharaa, nonostante, nel marzo scorso, oltre 1000 civili – alawiti, appartenenti alla confessione di Assad , oggi rifugiato in Russia – sono stati uccisi da forze paramilitari e dell’esercito regolare. Su questi fatti, per proteggersi dalle critiche, il nuovo governo ha creato un comitato per indagare sulle violenze verificatesi nel marzo 2024 sulla costa siriana. Ancora si aspetta un verdetto univoco. Ma la questione del confessionalismo, della necessità di ricostruire un tessuto sociale, ed evitare che il paese si sfaldi in tanti cantoni indipendenti basati sull’appartenenza religiosa, è il tema principale sul tavolo della nuova Siria.
Nel sud, a Suwayda, regione a maggiornaza drusa e confinante con Israele, parte della comunità drusa chiede maggiore autonomia da Damasco, accusata di reprimere le minoranze. Sullo sfondo il governo di Netanyahu che da mesi ha occupato parte del territorio demilitarizzato nella regione di Quneitra e che ha dichiarato di sostenere le aspirazioni druse, così da espandere la sua influenza in Siria.
A est, continua a rimanere aperto lo scenario irrisolto dell’autonomia dei curdi, guidati dall’YPG, il braccio siriano del PKK. Durante gli anni della guerra civile, l’YPG ha goduto del supporto degli Usa nella lotta contro l’Isis e di un numero di foreign fighter, anche italiani, andati in Siria a combattere nelle fila del partito curdo.
Ma a pesare sulle spalle dei siriani, oltre all’incertezza politica, c’è la questione economica. L’inflazione galoppante e gli strascichi di una guerra che ha lasciato un paese distrutto fanno si che circa il 90% dei siriani viva sotto la soglia di povertà. Il governo sta rispondendo con iniziative di raccolta fondi attraverso festival e eventi in cui i privati sono chiamati a donare. Circa un miliardo di dollari è già stato raccolto fra i siriani, ma le stime dicono che 400 sono i miliardi necessari per la ricostruzione. Ad ostacolare il processo c’è anche un sistema burocratico vecchio, ancora attaccato al clientelismo del passato, che ha bisogno di essere modernizzato.
Ma il paese c’è. Come c’è la possibilità di tornare. Questo anno migliaia di persone, in esilio da decenni, hanno riabbracciato i loro famigliari. Altri, rinchiusi in carcere da altrettanto tempo, hanno rivisto la luce. Come Ragheed al Tatari, pilota dell’aviazione siriana, arrestato e rinchiuso in una cella per 43 anni. Le prigioni, un tempo luoghi oscuri e solo narrati dai sopravvisuti, sono state aperte. A Damasco, è stato perfino creato un museo interattivo che racconta la realtà dei lager siriani. Migliaia mancano all’appello, scomparsi nelle maglie di un sistema carcerario fra i più temuti al mondo. Ma il paese affronta una transizione che sarà lunga, in cui c’è una sola possibilità: una Siria per tutti, o per nessuno.
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