Simone Barlaam: “Mi disturba chi non si pone domande. Le medaglie sono pezzi di metallo, il valore è cambiare la vita di chi crede in me”
- Postato il 4 ottobre 2025
- Sport News
- Di Il Fatto Quotidiano
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Continuare a meravigliarsi. Con decine di medaglie in bacheca e diversi record del mondo con il proprio nome inciso. Anche se “quando ho visto i miei compagni della Pohla Varese prepararsi per i Giochi di Rio 2016 e ho scoperto le gesta incredibili che potevano compiere gli atleti con disabilità, non mi sarei mai aspettato di arrivare al loro livello”. Nove anni e numerosi titoli più tardi, Simone Barlaam definisce ancora “surreali” i quattro ori conquistati ai Mondiali di nuoto paralimpico a Singapore, terminati lo scorso 27 settembre. Ha messo in fila un poker da antologia con i 50, i 100 e i 400 metri stile libero e i 100 metri farfalla con primato europeo e dei campionati nella categoria S9 (la scala va dalle disabilità più gravi S1 a quelle minime S10). L’acqua è sempre stata il suo elemento, fin da piccolo. Nato con un’ipoplasia del femore destro, ossia una gamba più corta dell’altra, e una coxa vara (una deformità dell’anca), in piscina l’atleta classe 2000, in forza alle Fiamme Oro, si è sempre sentito più leggero e a suo agio. E quando gli chiedono se si domandi ogni tanto perché proprio lui debba convivere con questa disabilità, sotto certi punti di vista risponde “menomale”. Una consapevolezza a cui è arrivato grazie alle persone che gli sono state accanto, ma anche meditando su diversi aspetti della vita. “Le risposte non sono semplici e vanno cercate nel profondo, ma questa riflessione che porto avanti mi ha fatto capire chi sono – racconta a ilfattoquotidiano.it –. È un ragionamento che vale anche per lo sport. Interrogarsi spesso potrebbe sembrare insicurezza, ma ho collezionato grandi risultati perché non mi sono mai crogiolato sugli allori. Mi disturba che davvero in pochi oggi si pongano delle domande, viviamo in una società piena di persone convinte che la loro parola sia la legge”.
Una mentalità con cui Barlaam ha collezionato otto medaglie paralimpiche e che l’ha portato sul tetto del mondo ventitré volte. A Singapore, la spedizione azzurra ha vinto il medagliere, ma la Federazione ha dimenticato di iscrivere le staffette ai Mondiali privando lui, i compagni e le compagne di confermare l’oro della 4×100 mista conquistato ai Giochi di Parigi 2024. Ci sono rimasto male, anche perché alcune delle medaglie più belle che ho portato a casa sono state con la staffetta. Quella in Francia, oro con record del mondo e lo stadio pieno, è stata probabilmente la gara più vista dell’Italia alle Paralimpiadi. Ed è bello perché in quel momento non rappresenti te stesso, ma il tuo Paese. Spero che vengano presi provvedimenti per chi ha sbagliato perché a rimetterci siamo noi atleti – si sfoga il nuotatore milanese –. Quando gli aspetti negativi della politica, come favoritismi e nepotismo, contaminano l’autenticità dello sport, dà fastidio”. Lui, comunque, continua a inanellare successi. E oggi, a soli 25 anni, è uno dei migliori atleti paralimpici in Italia.
Un palmarès da invidiare e ventitré volte campione del mondo dopo i Mondiali di Singapore. Senti la pressione di essere l’uomo da battere?
In passato è stato complicato imparare a gestirla. Crescendo e maturando come persona e come atleta, mi sono reso conto che nello sport tutto può succedere. Per quanto tu possa essere il favorito, devi guadagnarti tutto dal primo metro. Niente è mai scontato. Sentire questi numeri così altisonanti fa abbastanza effetto. Affronto una sfida alla volta, se a bordo vasca pensassi di essere l’atleta da battere per me sarebbe la fine. Rimango concentrato su me stesso e sull’esecuzione della gara.
Qual è la medaglia a cui sei più affezionato?
Non saprei scegliere, ognuna di quelle che ho vinto ha una storia alle spalle. Il primo titolo mondiale che dedicai al mio nonno materno, venuto a mancare poco prima dei campionati di Città del Messico nel 2017; il mio oro ex aequo con Federico Morlacchi nel 2019 ai Mondiali di Londra o quello che ci ha permesso di vincere per la prima volta il medagliere come nazionale. Oppure quando sono sceso sotto i 24 secondi nei 50 metri stile libero.
Hai vinto tantissimo, sia ai Giochi che a livello europeo e mondiale. C’è, invece, una sconfitta che ti ha segnato?
Più di una. Dietro i titoli mondiali e le decine di medaglie ci sono state tante sconfitte e quarti posti. Un esempio è la mia prima Paralimpiade, a Tokyo. Quel periodo è stato complicato per tutti, ma le aspettative erano alte e io ero molto sicuro di me. Poi non sono andato come ci aspettavamo, ho concluso diverse gare ai piedi del podio e incassato delusioni. Quei Giochi sono stati di grande insegnamento: ho imparato come reagire a situazioni difficili e ho capito molto di più di me, sia dal punto di vista personale che sportivo.
Dopo i Giochi di Tokyo hai considerato di lasciare il nuoto. Avevi appena 21 anni e una carriera davanti. Perché questa idea?
Ho pensato che non mi divertivo più a gareggiare, ma ero molto più impulsivo e più immaturo. Il nuoto può essere ripetitivo, specialmente a quell’età, e rimpiangevo di non potermi dedicare alle stesse attività dei miei coetanei. Poi, però, mi sono reso conto di essere un privilegiato a vivere con lo sport.
Come hai superato questa fase?
Ho cercato nuovi stimoli per divertirmi e tornare ad amare il nuoto. Dopo Tokyo mi sono allenato un paio di anni in una squadra di normodotati, l’Aquamore Bocconi. Lì ho incontrato moltissimi amici e la mia fidanzata. Il contesto diverso mi ha aiutato ad attenuare le aspettative che io stesso mi caricavo sulle spalle, a ritrovare serenità e a conoscermi ancora meglio.
Se dovessi indicare tre punti di riferimento sportivi, chi sarebbero e cosa ruberesti loro?
Probabilmente ho già rubato quello che dovevo. Ho avuto la fortuna di crescere con atleti incredibili e di fare mie le loro caratteristiche che ritenevo sarebbero state utili. Ho tanti punti di riferimento, che direttamente o meno mi hanno motivato. Dal mio mentore Federico Morlacchi al grande Alex Zanardi fino a Natalie du Toit, una nuotatrice sudafricana incredibile. E poi Kobe Bryant, che non ho mai avuto il piacere di conoscere, ma di cui apprezzo la famosa mamba mentality. Il suo agonismo, la voglia di lavorare sempre di più degli altri e quel modo di pensare allo sport quasi maniacale, che nel mio caso funziona ma con un giusto compromesso.
Tra le tue passioni c’è anche il disegno. Con i tuoi fumetti collabori anche con le Olimpiadi di Milano-Cortina, di cui sei ambassador. Come ti sei avvicinato a questo mondo?
Lo devo a mia mamma, che non è un artista di mestiere. Ma quando da piccolino ero in ospedale per le numerose operazioni che ho subito, rappresentava su dei fogli animali acquatici e squali, per cui ho una passione viscerale che non so quasi spiegare. Non potevo giocare ai videogiochi perché mi facevano salire troppo i battiti e ho dovuto trovare un hobby più rilassante. Disegnavo per evadere dalla quotidianità, che poteva essere ripetitiva e noiosa. E lo faccio tuttora, mi permette di connettermi con me stesso.
In uno dei tuoi ultimi fumetti citi Mandela: “Lo sport ha il potere di cambiare il mondo”. In un momento di guerre e grande instabilità politica, secondo te è capace di farlo?
È molto bello vedere atleti di Paesi con posizioni diverse dal punto di vista geopolitico parlare e chiacchierare insieme. Ovviamente molti di loro stanno soffrendo per le guerre in giro per il mondo e non vivono situazioni semplici. Ma credo che, a volte, lo sport sia capace di azzerare le ostilità che nella maggior parte dei casi non dipendono dalle persone comuni. Ogni giorno, poi, mi rendo conto di come il movimento paralimpico sia un fortissimo strumento di autodeterminazione perché concede a persone con disabilità di crearsi una carriera e di conseguenza essere un tassello importante della società, di cui poi gioviamo tutti.
Secondo te c’è abbastanza attenzione al mondo paralimpico?
Il pubblico generalista deve ancora scoprirci, l’interesse c’è ma i numeri non sono giganteschi. Chi si è interfacciato con il nostro mondo, da fan o in altri modi, è rimasto folgorato per il messaggio sociale, la sportività, le storie degli atleti. Si parla sempre più spesso di noi e le gare sono più trasmesse, ma il mondo deve accorgersi di quello che stiamo facendo e delle emozioni che possiamo regalare.
Qualche anno fa sei diventato testimonial Armani. Cosa ti è rimasto impresso di Giorgio Armani?
Innanzitutto gli sarò sempre grato per avermi voluto nel suo team, è un onore incredibile. Di lui mi ha impressionato quanto fosse determinato, forte e leader, anche a 90 anni. È sempre stato dedito al suo progetto fino alla fine, ha avuto un amore immenso per la sua azienda, si è sempre messo in discussione, ha cercato continuamente di rinnovarsi senza snaturare le sue idee e senza perdere la sua cifra stilistica. Anche se non come sportivo, in lui vedevo i valori che deve avere un grande campione.
Quale significato ha per te essere un modello per i bambini e le bambine con disabilità che si avvicinano allo sport?
È un grande onore, ma anche un onere perché devo cercare di trasmettere i valori che ritengo positivi. Nel mio caso mi presento naturale e genuino, con le caratteristiche che mi hanno portato fin dove sono oggi. Vedere messaggi di bimbi o bimbe che grazie ai miei risultati iniziano a praticare sport, a essere più sicuri di sé e meno timidi nel mostrare la propria disabilità è molto gratificante. La medaglia, alla fine, è un pezzo di metallo, ma significa che nel mio piccolo sto facendo qualcosa per cambiare la vita di alcune persone.
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