Se l’impressionismo colora le nostre vite. La recensione di Ciccotti

  • Postato il 7 dicembre 2025
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Pensate ad un film i cui costumi e le scenografie, nella Parigi della Bella Époque, siano quelli di un film di Luchino Visconti. Le messi dal verde al biondo, i casolari isolati eppure colmi di calore affettivo della Normandia, ma anche Montmartre (con le piccole vie, i bistrot), abbiano le pennellate della fotografia di un’opera di Maurice Pialat. La recitazione di un arcobaleno di smaliziati attori, tra la Parigi attuale e quella di Felix Nadar, sia supervisionata da una regia glissata alla Sergio Leone e, soprattutto, una storia, pardon, due storie, magicamente in parallelo, oggi e allora, talmente ben annodate, che avrebbero fatto resuscitare David Wark Griffith: ecco che abbiamo una colorata sinfonia con il beccheggio e le virate di un macaone su un campo di grano giallo picchiettato di papaveri rosi: è Il colore del tempo (La Venue de l’avvenir, 2025) di Cédric Klapisch.

Circa una trentina di persone, di diversi strati sociali, si trovano, nella Parigi di oggi, ad esser riuniti in quanto eredi (tutti cugini di diversi “gradi”) di una casa in Normandia, sepolta dalla vegetazione, appartenuta ad una lontana ava, Adèle Meunier (Suzanne Lindon, diafana e flessibile come una canna al vento), vissuta alla fine dell’Ottocento, tra il nord della Francia e Parigi. Per il primo sopralluogo (oggi) alla vecchia casa, vengono scelti quattro volontari, tra gli eredi, Guy, Céline, Seb e Abdel. Una volta fattasi strada nella fitta ed intricata selva traboccante di verde (dunque, una selva “chiara”), giunti sulla vecchia porta, in compagnia di un fabbro, tagliano con il frullino le vecchie sbarre di ferro, aggiunte nel 1944, ed entrano. Si offre a loro una grande casa, piena di foto d’epoca incorniciate, naturalmente impolverate, alle pareti, rigorosamente in bianco e nero. Sembra di esser piombati in un antico museo fotografico. La casa riserverà molte soprese, inclusa la corrispondenza di Adèle, appunto l’antica ava, in cui ella narra come abbia, pian piano, imparato a scrivere, come sia partita per Parigi alla ricerca della madre Odette (Sara Giraudeau) mai conosciuta, e come, da quelle pudiche missive, traspaiano delicati accenni a due suoi grandi amori.

L’intrigo della sceneggiatura, firmata da Cédric Klapisch e Santiago Amigorena, è quello di far dondolare lo spettatore tra Bella Époque e il tempo presente,  tra coppie di temi identici ma diversi nel tempo: la fotografia di oggi (Seb – Abraham Wapler – fa il fotografo) e quella di fine Ottocento; certa pittura contemporanea  che abusa  dello stile impressionista e l’Impressionismo tout court, colto nel suo nascere, con Monet eletto a personaggio (sarà il padre segreto cercato da Adèle, dopo aver rintracciato sua madre); l’amore assoluto, della durata d’un battito d’ali, quello in cui capita d’amare simultaneamente due persone; la ricerca della felicità nella caotica Parigi di oggi come in quella di ieri.

Il montaggio in parallelo (appunto introdotto nel cinema di D.W. Griffith, con Intolerance) qui torna a nuova vita: quello stesso ponte sulla Senna, un giorno fu attraversato dalla timida e spaesata ragazza di campagna, mentre, oggi, da uno dei quattro protagonisti: stesso taglio di inquadratura (Campo Medio), simile movimento del personaggio (in Figura Intera che si dirige, di sguincio, attraversando il ponte, verso lo spettatore): i semiotici lo chiamano “passaggio per identità”. Ecco, come le due storie si/ci parlano a distanza di anni, parallelamente: di sentimenti, di sogni, di timori, di desideri.

I colori del tempo è un idillio leopardiano dedicato alla ricerca di chi ci ha lasciato e di chi vorremmo incontrare e che inconsciamente stiamo cercando. Quell’anima gem(b)ella per il giovane fotografo Seb nella accelerata Parigi di oggi forse ha incontrato, o la mamma sconosciuta di Adèle infine rintracciata da questa, in un bordello semi-elegante della Parigi della Bella Époque.

Lo script inserisce nella storia di Adèle a Parigi, negli Novanta del XIX secolo, schegge di vita di sua madre Odette di venti anni prima (quando era modella di Claude Monet), ma anche il Monet degli anni Novanta, dalla fluente barba bianca (davanti a sua figlia, Adèle, non mostra troppa commozione), il noto Felix Nadar, sino ad accennare ad una serata nella quale “prossimamente, si mostreranno delle fotografie, dicono, in movimento” (siamo al dicembre 1895, a ridosso della nascita del Cinématographe ad opera dei Fratelli Lumière): dissolvendo finzione e documento ricostruito Klapisch accarezza una indubitabile quasi-credibilità storica. Inclusa la disputa, allegramente provocatoria, tra i due giovani ragazzi normanni, amici, in cerca di affermazione artistica a Parigi, un fotografo, Lucien (Vassili Schneider), e un pittore, Anatole (Paul Kircher): “la fotografia supererà e annullerà la pittura”, dice uno, e l’altro, “la pittura non morirà mai, l’uomo ha bisogno di dipingere”. Un tema che da più di un secolo ci affascina catturandoci.

La solitudine, la tristezza (che la vita, sovente, reca inevitabilmente seco), i frangenti difficili, si aprono sempre all’ottimismo, e al perdono: Adèle, “Mamma, perché mi hai lasciato?” /Odette, addolorata e amorevole ad un tempo (Giraudeau, perfetta): “Non potevo fare diversamente, non ti ho lasciato, mia madre mi ha impedito di vederti”). L’inesperta ma saggia Adèle comprende, pian piano, che spesso gli errori in cui cadiamo non sono voluti da noi, ma, direbbe Baudelaire, semplici “fiori del male” che incontriamo lungo la via (Odette: da modella di Monet, passando per diversi “innamoramenti”, si ritroverà ad esser diventata una serena prostituta di bordello).

Insomma, per Klapisch e Amigorena, Adèle esce dallo spleen baudelariano e cammina verso una felicità fortemente cercata col ritorno in Normandia, come i personaggi parigini, al termine del loro viaggio in fondo al passato, trovano tutti l’amore che attendevano (di una persona cara o degli studenti, nel caso di Abdel, il professore mentre festeggia il meritato pensionamento).

Autore
Formiche

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