Scarsa partecipazione alle scelte, disinformazione, paure legittime: da Nord a Sud, così cittadini e politica locale si oppongono alle rinnovabili

Il decreto sulle aree idonee per le rinnovabili non smorza la sindrome Nimby (Not in my backyard, ossia ‘Non nel mio cortile’), né placa le proteste delle comunità locali, pronte a scendere in piazza contro pale eoliche e pannelli solari a due passi da casa. Alla base delle mobilitazioni possono esserci preoccupazioni legittime, dovute a impatti ambientali, incertezza delle norme e alla poca partecipazione ai processi decisionali sperimentata finora dai territori, ma anche una resistenza molto meno razionale, alimentata da informazioni non sempre corrette e strumentalizzazioni. Un meccanismo che, a sua volta, genera la cosiddetta sindrome Nimto (Not in my terms of office, cioè ‘Non durante il mio mandato elettorale’). Perché se appoggiare il progetto di un parco eolico e fotovoltaico inviso può far perdere consensi (e voti), allora la politica fa un passo indietro. Alla fine le due ‘sindromi’ si alimentano a vicenda e si fa fatica persino a distinguere tra paure legittime e timori immotivati. Non ne ha tenuto conto il decreto, atteso da due anni e mezzo ma pubblicato solo a luglio 2024, con cui si dà mandato proprio alle Regioni di indicare quali siano le aree idonee, entro 180 giorni (oltre i quali il ministero dell’Ambiente può procedere con poteri sostitutivi, ndr). Eppure gli enti locali sono per definizione più ‘esposti’ di fronte alle proteste. Nel corso dell’estate, dalla Toscana alle Marche, i cittadini sono scesi in campo contro alcuni progetti nei rispettivi territori. Lo hanno fatto anche in Sardegna, dove la recente scia di incendi a diversi rinnovabili è prova tangibile di una situazione diventata insostenibile. Il rischio è che si crei l’ennesima paralisi.

Non solo burocrazia e tempi lunghi. Cosa blocca le rinnovabili – Secondo i dati di Terna, nel 2023 sono stati installati oltre 374mila impianti per 5.677 megawatt di capacità, di cui oltre 5mila MW di solare, 487 MW di impianti eolici e 42 MW tra geotermia e biomasse. Numeri che portano la potenza complessiva delle Fer a poco più di 66mila megawatt, insufficienti per raggiungere gli obiettivi climatici al 2030. Secondo il nuovo Pniec rispetto al 2021 dovrebbe esserci un incremento di circa 74 GW al 2030 (nel Decreto Aree Idonee si arriva a 80 GW, anche se diverse analisi stimano una necessità di almeno 90 gigawatt di nuova potenza dal 2023). A preoccupare è soprattutto la scarsità dei grandi impianti. Secondo Elettricità Futura, il 78% degli impianti di solare è sotto il megawatt di potenza. Il problema non è rappresentato solo dal tira e molla tra Palazzo Chigi e ministero dei Beni Culturali, dai processi autorizzativi nazionali e dalle frastagliate norme regionali ma, come racconta l’ultimo rapporto di Legambiente ‘Scacco alle rinnovabili 2024’, anche dal ruolo che hanno Comuni, Regioni e gli stessi cittadini nelle lungaggini e nei contenzioni. L’associazione racconta venti storie che riguardano solo nuovi impianti e che si aggiungono ad altre 43 storie riportate nelle edizioni precedenti “per un totale di 63 casi simbolo dei blocchi” che questi progetti subiscono. Dietro ci sono principalmente quattro cause: gli ostacoli dei Comuni che preferiscono spesso poli industriali e logistici, quelli posti dalle Regioni con tentativi di moratorie, le opposizioni tout court dei territori con cittadini e comitati, che possono avere tante ragioni e scontano norme e processi poco trasparenti e di coinvolgimento e, infine, la lentezza della burocrazia.

Le comunità contro le rinnovabili – Il resto è cronaca di un’estate di fuoco. A iniziare da quella della Sardegna (Leggi l’approfondimento) dove tra agosto e settembre, in ordine cronologico, è stata danneggiata una pala eolica, nel Nuorese, messo a segno un incendio nel sito della Vestas, a Villacidro, nel sud dell’isola, dove si costruisce un parco eolico, e messo a segno un altro rogo, appiccato giorni fa, che ha distrutto duemila pannelli solari a Tuili, sempre nel sud della Sardegna. Sullo sfondo la guerra dichiarata dai comitati di base a quella che definiscono un’invasione delle rinnovabili, l’ennesima dopo quella delle fonti fossili. Hanno manifestato a giugno, nelle campagne di Codrongianus (Sassari) e poi, ad agosto, a Villacidro e a Cagliari, dove sono scese in piazza duemila persone. In questo clima, la presidente della Regione, Alessandra Todde, ha approvato una legge per sospendere la realizzazione di nuovi impianti di produzione e accumulo di energia elettrica per 18 mesi, andandosi a scontrare con il Governo Meloni. Poi è arrivato un disegno di legge che recepisce quello ministeriale e che, sostiene l’assessore all’Industria Emanuele Cani è possibile che vincoli “il 99% del territorio”.

Ma non accade solo in Sardegna. Sulla scia della legge sarda, il comitato Terre di Val di Corna, nella Bassa Maremma, ha chiesto al presidente della Toscana di approvare un provvedimento simile. A Mogliano Veneto, a luglio, è stata organizzata una manifestazione bipartisan contro l’installazione di 13.500 moduli fotovoltaici su un’area verde. Il Comune è pronto a fare ricorso al Tar pur di bloccare il progetto contro cui ci si oppone dal 2021, anche se il terreno interessato era inizialmente destinato a polo logistico. Contro i campi fotovoltaici a terra nelle Marche, è protesta a Fabriano (Ancona), così come c’è stata a Sassoferrato, dove la diffida inviata dal Comitato Monte Strega al Comune, affinché non desse il via libera a nuovi impianti fotovoltaici a terra a Monterosso, nasce principalmente dalla preoccupazione di occupazione di suolo in un Comune che appartiene al Club dei Borghi più Belli d’Italia. È pur vero, però, che in questo caso parliamo di un’area industriale, destinata comunque ad attività produttive.

Il rischio di perdere opportunità – “La transizione energetica è un potente motore per lo sviluppo sostenibile dei territori, serve un’ampia ed efficace informazione ai cittadini sui benefici che genera a livello locale” spiega a ilfattoquotidiano.it Agostino Re Rebaudengo, presidente di Elettricità Futura, secondo cui “l’opposizione ai progetti della transizione, oltre ad ostacolare il raggiungimento degli obiettivi al 2030, fa perdere ai territori preziose opportunità di crescita, di cui invece l’Italia ha assoluto bisogno”. Il Decreto sulle aree idonee pubblicato a luglio scorso avrebbe dovuto accelerare la realizzazione degli impianti in tutte le aree idonee. “Avrebbe potuto farlo, dichiarando idonee tutte le aree che non avevano vincoli alla data di giugno 2022, data in cui doveva essere pubblicato il decreto – aggiunge – ma, al contrario, amplia le restrizioni. Ai regolamenti già severi delle Soprintendenze, infatti, aggiunge anche la facoltà delle Regioni di aumentare fino a 7 chilometri la distanza da un bene tutelato. Il che può, di fatto, essendo numerosi i beni tutelati, rendere la maggior parte del territorio completamente inaccessibile per lo sviluppo delle rinnovabili”. Adesso la parola passa alle Regioni, con il rischio che siano condizionate dalle proteste contro questo o quel progetto. “È di fondamentale importanza – commenta Re Rebaudengo – che nella nuova definizione delle aree idonee di competenza delle Regioni siano fatti salvi i progetti che dal 2021 ad oggi sono stati localizzati nelle aree definite idonee ai sensi del decreto che ha attuato la Red II”.

Se il no alle rinnovabili apre la strada alle scorie radioattive – A dimostrazione, però, che la sindrome Nimby non riguardi solo i cittadini e che sia alimentata e alimenti a sua volta la sindrome Nimto, c’è il caso di Genzano di Lucania (Potenza) dove l’opposizione alle Fer rischia di aprire la strada al deposito di rifiuti radioattivi. Come raccontato nel report di Legambiente, dal 2018 sono arrivate decine di proposte per progetti fotovoltaici e agrivoltaici, da realizzare sul territorio per oltre 500 megawatt di potenza. La Sovrintendenza della Basilicata, con ratifica della Regione, ha però istituito un vincolo paesaggistico per un raggio di 10 chilometri intorno al sito del Castello di Monteserico, per impedire la realizzazione di impianti Fer. Così facendo è stato bloccato l’iter autorizzativo di decine dei progetti, alcuni dei quali già avviati prima dell’istituzione del vincolo. Questo, tra l’altro, è stato oggetto di diversi studi di noti esperti paesaggisti, i quali hanno più volte sottolineato la sproporzione dell’area interessata al divieto. Infine, a dicembre 2023, il ministero dell’Ambiente ha pubblicato un altro documento: l’elenco delle Aree Idonee per il Deposito nazionale dei rifiuti radioattivi. E dei 51 siti idonei in tutta Italia, cinque ricadono nel comune di Genzano di Lucania. Uno di questi coincide proprio con l’area di un progetto agrivoltaico bloccato. “Se oggi questo progetto fosse già autorizzato – commenta Legambiente – su quell’area sarebbe apposto un vincolo di pubblica utilità, indifferibilità e urgenza per la realizzazione di iniziative Fer e nessun Deposito nazionale di rifiuti radioattivi potrebbe ottenere il via libera”.

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Il Fatto Quotidiano

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