“Sangue – Storia di Anna”, ovvero di quel momento in cui ho deciso di raccontare le porte girevoli della mia vita tramite il femminicidio della moglie di mio padre

  • Postato il 27 giugno 2025
  • Libri E Arte
  • Di Il Fatto Quotidiano
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Avvicinarsi alla verità è un po’ come scindere un atomo. Perché se decidi di arrivare fino in fondo, poi devi fare i conti con il dolore, devi accettare una percentuale di devastazione. In una società dove l’(auto)narrazione di se stessi è fondamentale, dove per vendere un prodotto è necessario costruirgli intorno una storia, la mia famiglia si è tenuta insieme grazie a un non detto. Per decenni. Tutti sapevano ciò che era successo, ma nessuno aveva il coraggio di parlarne. L’orrore era troppo forte. La sofferenza insostenibile. L’unico modo per andare avanti era non guardare mai indietro. Anche a costo di crescere come alberi senza radici.

Io sono stato l’ultimo a sapere, ma anche il primo a voler conoscere. Quando avevo sette oppure otto anni la mia tata mi disse che io, mio fratello e mia sorella non eravamo uguali. Avevamo avuto madri diverse. Non eravamo fratelli ma fratellastri. E pronunciò quella parola caricandola di un significato negativo. Uno di noi doveva necessariamente valere meno, doveva essere guasto, fallato, imperfetto. A lungo cercai risposte senza sapere neanche quali domande porre. Fino a quando non inciampai in una rivelazione. Un paio d’anni dopo, in un asfissiante pomeriggio d’estate, mio zio mi raccontò che mio padre aveva vissuto un’altra vita prima di me, un’esistenza in cui io non ero neanche previsto. Sua moglie era stata uccisa. Lui si era sentito perso, si era sbriciolato un po’ alla volta. Poi dopo qualche anno si era risposato con mia madre ed ero nato io. Allora abbassai gli occhi e rimasi zitto. Piansi. Mi calmai. Piansi di nuovo. Fino allo sfinimento.

Quel racconto mi fu sufficiente. Non aveva senso indagare oltre. La vicenda rimase sullo sfondo della mia vita per una trentina d’anni. Sapevo che quella donna non c’era più, ma non sapevo come se n’era andata. Conoscevo solo il suo nome, Anna. E sapevo che mia madre teneva una sua fotografia sopra il pianoforte in corridoio. Le cose cambiarono più o meno tre anni fa. Per un paio di notti sognai la donna della foto. La sua bellezza era intatta anche se il suo viso era velato. Mi sorrideva. Fu allora che compresi. Io e lei eravamo uniti da un filo che nessun altro poteva vedere. Le nostre vite erano state possibili perché si erano escluse a vicenda. La mia nascita era una conseguenza indiretta della sua morte. Eppure quella signora che non avevo neanche mai visto mi aveva lasciato in dote due delle persone più importanti della mia vita. Mio fratello Guido. E mia sorella Paola. Cominciai a ricomporre la sua storia. Dove era nata, che lavoro faceva, con quali sogni si addormentava, come aveva conosciuto mio padre Alessandro. Fino a quando le pagine di cronaca non presero il posto dei ricordi.

Il 18 maggio del 1976 Anna salì a bordo della sua 126 verde e guidò fino a Tarquinia Lido. Doveva liberare la casa che aveva affittato per le vacanze e trasportare un po’ di biancheria nell’appartamento della sua famiglia, qualche chilometro più in là. Il portiere dello stabile aveva mal di schiena, così inviò ad aiutarla suo nipote Stefano, un ragazzo che a sedici anni aveva già avuto una serie infinita di problemi. Lui e Anna non si conoscevano, non avevano mai scambiato neanche una parola. Se si ritrovarono seduti uno accanto all’altra sui sedili di quella macchina fu solo per un capriccio del destino. Rimasero estranei per qualche minuto, poi una volta posate le valigie dentro casa i loro ruoli cambiarono improvvisamente. Lui cercò prima di abbracciarla e poi di violentarla. E quando lei tentò di divincolarsi, quando gli disse che aveva dei figli da cui tornare, il ragazzo si trasformò in carnefice. Fino a spegnere la vita della donna con una ferocia agghiacciante.

Quando si accorse che Anna non respirava più Stefano affondò le mani nella sua borsetta. Le rubò soldi, chiavi e qualche indumento. Poi prese la 126 verde e si lanciò in una fuga sghemba e picaresca. Il massacro del Circeo era avvenuto soltanto pochi mesi prima, ma la storia di Anna finì sui giornali per due giorni appena prima di ridursi a un trafiletto accanto alle pubblicità degli antiforfora e delle lozioni per far ricrescere i capelli. Al processo non ci fu nessuno picchetto. Nessuno che faceva il segno della vulva. Nessuno che si dichiarava assetato di giustizia. Era come se quella storia non interessasse a nessuno. La morte di una borghese non faceva poi notizia. O almeno così mi ha spiegato chi quell’assassinio l’aveva raccontato in presa diretta sui giornali. La vita di Anna si era spezzata nel silenzio più assoluto. E il suo assassino se l’era cavata con una pena minima.

Era la doppia morale dell’Italia dell’epoca. Un Paese dove era ancora presente il delitto d’onore, il matrimonio riparatore, dove la censura poteva strappare via dalle sale i film di Pasolini, dove si approvavano leggi restrittive sull’aborto. Dopo aver messo insieme tutti questi tasselli mi decisi a scrivere. Non lo desideravo, ne avevo bisogno. Dapprima mi sembrava una bizzarra forma di riconoscenza, ma presto si trasformò in missione. Per qualche strano motivo conoscere la storia di Anna significava riappropriarmi della mia storia. Nostro padre, suo marito, era morto quando avevo cinque anni. Era un diplomatico. Aveva accusato un malore durante un viaggio in India. Da allora nessuno di noi tre fratelli aveva più parlato del passato. Esisteva solo il presente. Eravamo sopravvissuti a una tempesta e ci eravamo trovati a convivere in una casa che non faceva altro che ricordarci quello che avevamo perso. Ognuno era andato avanti a modo suo. Chi si era chiuso nella musica, chi nei romanzi, chi nello studio, chi nelle amicizie, chi nel risentimento. Fino a quando non eravamo sicuri di esserci messi tutto alle spalle.

Raccontare di Anna diventò un modo per farla rivivere, seppure solo nel perimetro di qualche pagina. Ma anche per accendere un fiammifero e rischiarare un femminicidio (anche se allora non si chiama ancora così) che tutti avevano dimenticato. Chi per disinteresse, chi per autodifesa. Rileggere gli articoli di allora, scorrere le foto, ripercorrere le carte processuali, soppesare le testimonianze è stato straziante. È stato come tuffarsi in un mondo desueto, dove la vita, i giornali, la televisione e la giustizia funzionavano con regole molto diverse rispetto a oggi. L’inchiostro nero dei quotidiani spiattellava dettagli orrorosi della morte di Anna. Oppure componeva il volto del suo assassino minorenne. Come se niente fosse. La fine del processo fu come una beffa. Stefano aveva provato a violentare Anna e poi l’aveva uccisa. Eppure se l’era cavata con una pena così lieve. Era giusto dargli un’altra opportunità? O avrebbe dovuto pagare come un adulto per un crimine così orrendo?

Quando ho finito di scrivere ero una persona diversa rispetto a quella che aveva iniziato. Avevo appreso tutto ciò che per una vita mi ero rifiutato di imparare. Ho riannodato la storia della mia famiglia, che poi essenzialmente è una storia di addii e di dolore. Così facendo ho costretto molti a fare i conti con una sofferenza arcaica che pensavano sopita. Di questo mi spiace, ma non posso scusarmene. Perché la verità è incendiaria e dinamitarda. E a volte sa far male. Molto.

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Il Fatto Quotidiano

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