Salute, ambiente, distribuzione delle ricchezze: perché scegliere i cibi ultra-processati fa male a tutti

  • Postato il 29 ottobre 2025
  • Ambiente
  • Di Il Fatto Quotidiano
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Snack dolci e salati come merendine e patatine; biscotti industriali; bevande zuccherate e gassate; cereali da colazione; caramelle, gomme, prodotti di pasticceria; creme spalmabili; salse pronte; piatti pronti surgelati o da riscaldare; nugget; bastoncini o crocchette di pollo; paste sfoglie o surgelate; hamburger, wurstel e altri prodotti a base ricostituita; zuppe pronte e noodles; dessert istantanei; sottilette e formaggini.

Sono alcuni esempi di cibi ultra-processati. Una definizione che non ha nulla di morale ma è scientifica, ovvero basata su una precisa tassonomia in vigore dal 2016, chiamata NOVA e stilata in base alla trasformazione subita.

A mettere sul banco degli imputati questa tipologia di alimenti è il libro Non è cibo. Come l’industria ha rimpiazzato il cibo autentico. E come possiamo riprendercelo (Altreconomia), scritto da Alessandro Franceschini, presidente di Altromercato e da 30 anni impegnato nel Commercio Equo e solidale italiano. L’autore non è ovviamente contrario alla trasformazione del cibo in sé, né alla tecnologia, quanto all’abuso dell’ultra-trasformazione e alla manipolazione industriale massiccia nel cibo.

Il primo elemento di trasformazione dei cibi riguarda i processi, cioè le tecniche di ingegneria alimentare con cui l’industria interviene direttamente sulla materia prima. Poi c’è l’aggiunta di additivi, che ne prolungano la durata e li rendono più appetibili. Sono quelli indicati con la “E” più tre cifre e sono davvero tantissimi. Franceschini li elenca mettendo accanto a ciascuno un alimento simbolo: coloranti (E 100-199); conservanti (E200-299); antiossidanti e regolatori di acidità (E300-399); emulsionanti, stabilizzanti e addensanti e acidi gelificanti (E400-499); antiagglomeranti (E500-599); esaltatori di sapidità (E600-699); edulcoranti (E950-969). E poi ci sono gli aromi, che costruiscono e rafforzano la percezione sensoriale. Infine, gli alimenti vengono modificati al fine di conservarli più a lungo.

Ma cosa fare per difendersi? “Tutto ciò che non abbiamo nella nostra dispensa è quasi sicuramente un cibo ultra-processato”, spiega sempre Franceschini. Oltre a questo, dalle etichette possiamo capire la quantità di manipolazione che il prodotto ha subito. “Quando troviamo ingredienti come proteine isolate, grassi idrogenati, gomme, maltodestrine, stabilizzanti, emulsionanti, nitriti o nitrati, esaltatori di sapidità è probabile che sia un prodotto ultra processato. Lo stesso se vediamo un’aranciata che contiene il 12% di succo di frutta o un liquore al cocco che del cocco ha solo aromi”, afferma l’autore. Ci sono poi alcune app, come Junker e Yuca , che consentono di scansionare il codice a barre di un prodotto per conoscerne tutti gli aspetti nutrizionali.

Nel mondo si consuma tantissimo cibo processato. La percentuale varia dal 42% al 58% in Australia e Stati Uniti. In Canada è del 46%, 38% Giappone, scende invece nei paesi a basso reddito. In Italia siamo al 17,3% per gli adulti ma la percentuale purtroppo sale al 25,9% per bambini e adolescenti. “Purtroppo, gli ultra-processati sono più economici e sottoposto a un marketing aggressivo”, nota Franceschini. Eppure, danno dipendenza, sono dannosi per la salute, causano obesità.

Ma c’è di più e il libro lo spiega con chiarezza. Perché il cibo ultra-processato spinge per la selezione massiva e la produzione intensiva di poche specie coltivate e allevate, contribuendo alla perdita di biodiversità agricola; costringe i produttori agricoli in un modello di compressione del prezzo di acquisto della materia prima; favorisce processi di concentrazione dei profitti nelle mani di pochi; provoca infine danni all’ambiente, viste le emissioni prodotte nei processi di trasformazione, l’acqua consumata, la deforestazione causata da molti ingredienti e soprattutto gli imballaggi in plastica monouso.

A fronte di tutto ciò, la risposta deve arrivare da più fronti: la politica, le aziende, i consumatori. “Dalla politica dobbiamo pretendere leggi che ci proteggano dal dilagare di cibi pesantemente trasformati, alle aziende produttrici dobbiamo chiedere filiere più sostenibili”, scrive l’autore.

Nel mondo ci sono già numerose normative contro i prodotti ultra-processati, come tasse sulle bevande zuccherate o su cibi non essenziali, oppure etichette nutrizionali di avvertimento ai consumatori. Inoltre, in alcuni Paesi è vietato associare animali o personaggi dei cartoni sui cereali, biscotti o gelati (in Italia esiste una proposta di legge di AVS che prevede il divieto di pubblicità diretta e indiretta dei cibi ultra- processati. Ma per ora, appunto, è una proposta di legge).

“Nel nostro Paese purtroppo si continuano a rimandare plastic e sugar tax. Ma come cittadini e consumatori possiamo chiedere alle mense scolastiche di cambiare, alle scuole di inserire cibi sani nella macchinette, infine soprattutto possiamo non comprare cibi ultra-processati: se i clienti, cioè tutti noi, esercitassero una forma collettiva di resistenza, nessuna azienda potrebbe ignorare la richiesta di cambiamento. Infine”, conclude l’autore, “come forma di resistenza questo fenomeno, sarebbe importante sostenere le “economie non ultra-processate come l’agricoltura bio, l’equo e solidale, le filiere corte, le forme partecipative di difesa del cibo autentico”.

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Il Fatto Quotidiano

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