Quattro Mosche di Velluto Grigio torna in sala: il capolavoro nascosto di Dario Argento in versione restaurata 4K
- Postato il 14 luglio 2025
- Cinema
- Di Il Fatto Quotidiano
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Così imparammo ad amare Dario Argento. Quattro mosche di velluto grigio (1971), il titolo meno celebre e forse più sfortunato, nonché distribuito col contagocce nel passato, della cosiddetta “trilogia degli animali” (L’uccello dalle piume di cristallo, Il gatto a nove code), torna nelle sale italiane in versione restaurata 4K dalla Cineteca di Bologna il 14 luglio 2025.
Sfacciatamente audace, stilisticamente irrefrenabile, quando ancora Profondo Rosso doveva germinare, Quattro mosche di velluto grigio ha già nei titoli di testa un cuore pulsante (creato da Carlo Rambaldi) e un assolo di batteria ripreso in soggettiva (c’è anche un’altra oggettiva inarrivabile dalla cassa di una chitarra) a scombinare le coordinate percettive dello spettatore più smaliziato. Figuriamoci il resto. Il batterista Roberto Tobias (Michael Brandon), sorta di sosia somatico e biografico di Argento, uccide involontariamente un tizio che pareva pedinarlo, mentre un altro figuro mascherato lo fotografa nell’atto omicida. Quest’ultimo inizierà a ricattare il protagonista, per poi uccidere figure familiari a lui vicine (la tata, la cugina della fidanzata e un delizioso detective omosessuale messosi sulle tracce dell’assassino).
Argento è in uno dei suoi momenti di grazia forse meno eccentrici ma più esasperati. Memore di Psycho di Hitchcock lascia scorrere il minutaggio per la costruzione spasmodica delle sequenze degli omicidi, piccoli film nei film; inaugura con baldanza e cronometrica precisione l’era del jump scare; si inventa una soluzione surreale che porta al finale disvelatore (Luigi Cozzi, soggettista e aiuto regista ha stragiurato da sempre di aver inventato lui l’escamotage delle “quattro mosche” impresse sulla retina infinocchiando Argento); fa leccare il proprio sangue sul proprio viso all’assassino sul finale del film. Ma è in questa sorta di sperimentalismo senza freni, disinvolto e imperfetto, affascinante e inusuale, che Argento si supera, in un trip tecnico stilistico che in altre epoche risulterà kitsch, di maniera, fuori fase.
Come raccontò lui stesso in diverse interviste, non si contarono i tentativi di trovare sempre più impossibili punti macchina per la ripresa, sciorinando le oramai classiche soggettive frontali, l’incubo della decapitazione nella moschea che a ogni ripetizione avanza di qualche fotogramma o quell’incredibile sequenza finale al rallentatore. “Per questa ho usato la Pentazet, una cinepresa appartenuta all’Università di Lipsia, che la usava per studiare la fusione dei metalli, l’unica al mondo a raggiungere una velocità di ripresa di 18000 e – in teoria – 30mila fotogrammi al secondo. Siamo riusciti ad arrivare a 12mila fotogrammi utilizzando un processo speciale. Una bellissima sequenza, molto fluida”. Infine, sempre perché Argento è stato sottovalutato come sceneggiatore, qui riprende magistralmente la sua crisi di coppia, nel quotidiano inespressa e sublimata, mescolandola ad una dinamica psicanalitica familiare che esplode proprio grazie ai personaggi del film (la moglie di Roberto è una gelida Mimsy Farmer, identica alla Marisa Casale dell’epoca). Cecchi Gori Entertainment, che cura la distribuzione in sala con la Cineteca di Bologna, lancerà la campagna di crowdfunding Start Up! per pubblicare questa versione restaurata del film in un cofanetto da collezione.
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