Prima della Scala 2025, la politica è scomparsa? No, forse è solo al bar. Il racconto di ciò che non avete visto in tv

  • Postato il 8 dicembre 2025
  • Cultura
  • Di Il Fatto Quotidiano
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Puff, è scomparsa la politica, dicono. Ma la Prima della Scala brulica di vicepolitica, sottopolitica, minipolitica, ex politica, reggenti, facenti funzioni, luogotenenti, spicciafaccende, caporioni, vecchie glorie, ex dive dimenticate. Ogni tre metri un sottosegretario, un presidente di commissione, un capogruppo di qualcosa: picchettati nel foyer, guasconi in corridoio, famelici alla cassa del bar, brillanti e tintinnanti nel ridotto mentre sorseggiano dal calice. Se non si trova la politica, magari è solo che è al bancone per ordinare. Una cronaca più scrupolosa di questa imporrebbe di indicare nomi e cognomi col rischio però che il cittadino-elettore-lettore fatichi a collegarli a una faccia e a un merito tale da godere dell’opportunità di partecipare all’appuntamento culturale tra i più prestigiosi del mondo e dell’anno. E’ sufficiente il sollievo che almeno per il momento Fratelli d’Italia non abbia imbarcato anche Shostakovich, Chailly e il soprano nel suo pantheon che ormai ha solo posti in piedi essendo gonfio di gente fino a Gramsci a Pasolini e all’orizzonte chissà il Che e Cossutta. In realtà, a conti fatti, la Scala ai tempi del potere della destra è come la Scala ai tempi del potere della sinistra (o così almeno la chiamavano): sembra che si metta a vento e invece lo ignora. E’ l’unico posto forse nel mondo in cui trionfa il centro: qui Maurizio Lupi lo ascoltano davvero come se fosse importante. Ma è soprattutto il centro degli affari, di banchieri, industriali, manager, amministratori, boiardi, consigliori, ercolini sempre in piedi. E quindi se la politica di Roma non si fa vedere, a Milano fondamentalmente frega zero, come ha risposto con onestà rara il presidente della Regione Attilio Fontana, inopinatamente avanzato in seconda fila del Palco Reale in quanto lasciato sguarnito. In questo vuoto di volti conosciuti sarebbero da premiare con monumenti equestri fotografi e cameramen che corrono elettrizzati dietro ogni vetro fumé che si ferma davanti all’ingresso del teatro e scoprono che è tutta una riffa: il cuore lacrima quando i colleghi vedono aprirsi lo sportello e, a dispetto dell’attesa, scende un generale dei carabinieri, sia pure col tabarro tipo Batman.

La politica, dicono, è scomparsa dallo spettacolo lirico più celebre, ma appare subito una falsa speranza. Il meloniano Federico Mollicone, anziché limitarsi a frasi di circostanza sul meteo – clausola di salvaguardia di certe occasioni -, si inerpica in un ragionamento che si conclude con il concetto che l’opera di Shostakovich (che se ha un elemento su cui è difficile sbagliare è la denuncia spietata del patriarcato) “stride molto con i valori di rispetto delle donne“. Ricorda da vicino quella volta che Dario Nardella voleva che la Carmen di Bizet non finisse morta ammazzata – come da trama appositamente scandalizzante – ma diventasse una specie di Wonderwoman e magari aprisse un chiringuito a Cancùn. Aiuto, non c’è più la politica alla Scala: o magari c’è e non si vede, come nella riforma dei teatri lirici voluta dal sottosegretario Gianmarco Mazzi che aumenta il controllo ministeriale sulla gestione delle fondazioni, con possibili iniziative visibilmente benemerite come la nomina di Beatrice Venezi alla Fenice. Ecco, sì, forse è vero quello che dicono, che la politica è “scomparsa”: è campionessa di ghosting quando c’è da rendere meno precari i lavoratori, più aggiornati i contratti, più dignitosi gli stipendi.

Così nel derby dell’intervistometro del foyer vince per mancanza di avversari la nazionale cinema e spettacoli e con tutti questi ospiti che non c’entrano niente con la politica quasi quasi ai Fratelli d’Italia gli potrebbe venire voglia di farci Atreju il prossimo anno. Raccoglie un notevole numero di richieste di foto Pierfrancesco Favino, bloccato in sala prima che salisse sul palco col costume da Sergej, poi sul podio con la barba del maestro Chailly e infine nella buca travestito da arpa. Achille Lauro fatica ad attraversare il lato corto del foyer perché viene assalito da un commando di telecamere. Dopo qualche battuta – svogliata o atterrita, forse la seconda – un suo assistente prova anche a dire qualcosa come “ora basta domande, dobbiamo entrare” che però, lì, in quel canaio che è l’ingresso del teatro Piermarini la sera del 7 dicembre, ha ricordato l’effetto che faceva Tajani quando diceva con la faccia brutta “ora basta” ad Israele nei mesi della carneficina. Una signora ne approfitta e a mezzo metro di distanza grida: “Sei bellissimo!”. Poco dopo – mannaggina – Lauro fa alzare in piedi tutto il “Senatooo” non per una standing ovation ma perché ha il posto in mezzo alla fila e quindi gli ottuagenari spettatori che si erano già assisi con ragguardevole sollievo hanno dovuto ripetere l’operazione daccapo con altrettanto scorno.

Lo chef Davide Oldani dimostra un’invidiabile capacità di permanenza nel foyer, almeno 40 minuti, uno sforzo tecnico-sportivo imponente, poiché la sala d’ingresso della Scala a sant’Ambrogio si trasforma – è bene ricordarlo per Amnesty International che è all’ascolto – in un mega-ring di combattimento per muay thai, senza esclusione di colpi né diritti di precedenza auspicabili non per forza da manuali del bon ton, ma si spererebbe almeno dalle lezioni di buona educazione impartite all’età del passeggino. Sciure ricoperte da gioielli il cui valore è di circa 8,3 buste paga delle maschere del teatro travolgono come schiacciasassi tutto ciò che hanno davanti – vip o non vip, va riconosciuta l’etica professionale -, i più giovani sono anche più deleteri perché obnubilati dai telefonini e quindi caricano a testa bassa come alla plaza de toros de Las Ventas. Eppure l’aria sembra così avvilita che c’è chi deve spiegare a chi l’accompagna che “quello è De Bortoli, era direttore del Corriere“, mentre una coppia di francesi è lì che si interroga su chi sia quel bel ragazzo con un tatouage sur le visage che tutti agognano (sempre Lauro).

Si scopre che Fabio Capello è melomane e aveva una cosa che ancora non era riuscito a conquistare: un biglietto della Prima, appunto, mentre Beppe Marotta sembra a suo agio nel foyer come allo stadio. Milano sembra non esistere senza Berlusconi e quindi – oltre al pugnace Fedele Confalonieri (che se ne intende) sprofondato nella sua solita poltroncina al fianco del corridoio centrale della platea – ecco anche Barbara che ora è nel cda della Scala. “La cultura russa è una cultura straordinaria, una cultura antica, quindi credo che sia importante presentare opere che sono state composte da compositori di tutto il mondo e La Scala questa l’ha sempre fatto e continuerà a farlo”. Il padre badava ad altri prodotti, più artigianali e più funzionali come il lettone (con l’accento sulla o) che gli regalò quel certo amico di San Pietroburgo. Sul palco si canta in russo, il regista è russo, russo è il tenore, è russo anche il basso ed è russa la costumista, mentre lo scenografo è bielorusso. Ciononostante in platea nessuno ha messo mano alla pistola, non sono inviate proteste all’Onu per annullare lo spettacolo e al momento in cui andiamo in pubblicazione Calenda non si è ancora fatto tatuaggi.

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