Pride Month in chiusura: oggi anche in Europa i diritti della comunità Lgbt+ sono sotto attacco
- Postato il 30 giugno 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Il 30 giugno finisce il Pride Month, sebbene la stagione dei cortei sia ben più estesa e copra i mesi estivi fino a settembre. In chiusura del mese dell’orgoglio di quest’anno, si possono fare alcuni bilanci per quanto riguarda ciò che è successo in Italia e nel mondo, in relazione alla “questione arcobaleno”. Prima però è necessario fare alcuni passi indietro.
Nel 1969, è noto, i moti di Stonewall davano il via alla storia del pride. Dopo le angherie della polizia e di un sistema che schiacciava le soggettività considerate “fuori norma”, la nostra comunità si ribella. Avviando un percorso che culminerà con l’ottenimento di un insieme di diritti nel primo ventennio del nuovo secolo. Tuttavia, nonostante gli indubbi progressi, questi diritti sono ora messi in discussione. Anche in Europa. Cioè a casa nostra.
Tra questi, il diritto alla visibilità è forse quello maggiormente sotto attacco. Pensiamo al divieto dei pride in Ungheria, o alle leggi “anti-gay” in Russia per fare due esempi. Non è la prima volta che chi gestisce il potere prova a zittire e a cancellare le identità Lgbtqia+. Come non ricordare il World Pride del 2000, che nacque dall’indignazione collettiva contro l’ingerenza della chiesa cattolica nella vita politica e democratica del Paese? Era l’anno del Giubileo e Roma non poteva essere attraversata, secondo una certa narrazione omofoba, da un corteo di peccatori. La Santa Sede fece un errore storico che decretò il successo di quell’evento: trasformò una manifestazione locale, per quanto importante visto il ruolo della Capitale, nell’appuntamento della comunità arcobaleno di tutto il mondo.
Una cosa del genere è avvenuta, proprio sabato scorso, a Budapest. Dopo il divieto di Orban, il cui governo estremista e di estrema destra ha reso illegale il pride, la comunità – a livello europeo – ha sfidato quelle leggi liberticide e ha portato sulle rive del Danubio centinaia di migliaia di persone. Orban ne esce umiliato, in casa sua. E chissà che questa sconfitta non sia il primo passo della fine del suo regime illiberale.
In entrambi i casi, Roma e Budapest hanno – pur nella diversità di contesto storico e situazioni pregresse – dinamiche similari: un agente di potere (che sia un pontefice o un parlamento, poco importa) ha provato a imporre un veto, al fine di invisibilizzare la comunità arcobaleno. La quale invece ha risposto, disattendendo a quel tentativo di cancellazione. Occupando la piazza. Quindi, attraverso l’esercizio della propria visibilità. Visibilità che non è più, dunque, solo un diritto. Ma anche, e soprattutto, un’arma politica.
Ciò ci pone una riflessione profonda su cosa deve essere, oggi in Italia (e forse non solo nel nostro paese), la marcia dell’orgoglio. Essa si innesta su coordinate specifiche: il livello di scontro tra una comunità oppressa e un sistema sociale e di potere che era (ed è) l’oppressore. Quel livello di scontro, in opposizione a quelle forze che ci vogliono senza diritti e con identità amputate, oggi più che mai è necessario e urgente. Perché attuale. Tradotto in poche parole: i pride devono essere politici.
Terapie di riconversione, limitazione dei diritti, criminalizzazione di specifiche categorie (famiglie arcobaleno, persone transgender), silenziamento (a cominciare con le politiche scolastiche) sono i terreni di scontro sui quali dovremo confrontarci. Questo è il quadro in cui si muove la nostra comunità oggi.
La comunità italiana, e il movimento politico che da essa si sviluppa, ha questo gravoso compito, nel qui e ora e per le sfide che lo attendono (e che ci attendono) in futuro. Se vogliamo recuperare lo spirito di Stonewall e, con esso, del pride come strumento politico, è necessario mantenere alto il livello di scontro. Come faro della nostra azione, sulle piazze, per le strade e dentro i singoli circuiti associativi. L’oppressore è forte più che mai e si fa forte del consenso delle urne (omettendo di dire, però, che oltre la metà dell’elettorato non è andato a votare. E così è facile).
Noi, di fronte a questo quadro, dobbiamo decidere cosa vogliamo diventare. In altri termini, se recuperare quella dimensione di conflitto o assimilarci a un sistema che, lo sta dimostrando, finge di includerci per poi voltarsi le spalle al momento opportuno. Questo il bivio da attraversare, con tutte le sue contraddizioni. E per quanto mi riguarda, la scelta è molto semplice da fare. Per quanto impegnativa, nelle sue conseguenze.
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