“Prendo in prestito le immagini del mondo”. Intervista all’artista Nicola Bizzarri
- Postato il 23 agosto 2025
- Arte Contemporanea
- Di Artribune
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Piuttosto che inventare mondi, Nicola Bizzarri (Bologna, 1996) preferisce ribaltare quello esistente. Le sue opere nascono spesso dall’utilizzo di cose esistenti e già note, alle quali l’artista applica interferenze sottili e incisive: alcuni vasi vengono plasmati con alla base un autoritratto di Bizzarri stesso, che ne altera forma ed equilibrio; i motti contenuti nelle sciarpe delle tifoserie calcistiche subiscono modifiche che le rendono simili ad haiku strampalati; delle statuine di cavalli vengono stampate su tessuti, perdendo ogni connotazione tridimensionale. Sono solo alcuni esempi delle trasfigurazioni di Bizzarri, che sfuggono al perimetro della divisione tra medium: fotografia, scultura, installazione sono di volta in volta usati per dar forma a opere sfuggenti, nelle quali l’artista sembra divertirsi ad aggiungere o togliere informazioni alle immagini che crea, complicandone così la lettura.

Intervista a Nicola Bizzarri
La tua poetica sembra proporre un ribaltamento sottile dell’esistente, un prelievo della realtà che viene da te “rimasticata” e trasfigurata attraverso spostamenti minimi eppure decisivi. Come sei arrivato a sviluppare questo atteggiamento artistico?
Sì, parto sempre da degli elementi esistenti, molti dei miei lavori li vedo dopotutto come dei collage di idee. È un’attitudine abbastanza spontanea, ma che col tempo ho imparato a coltivare. Il mondo è già saturo di immagini e informazioni allegate: io le prendo in prestito, per così dire.
Nonostante la tua pratica si muova tra linguaggi diversi, avverto una sensibilità scultorea, evidente in opere come In the end only anger remains o Double self-portrait as vases. In entrambi i casi trovo ci sia una volontà di destabilizzare il medium della scultura, pur rimanendo all’interno del suo perimetro.
Devo dire che a volte questa cosa mi spaventa un po’: temo che il lavoro possa essere percepito in maniera troppo marcata in riferimento alla scultura e alla sua storia, in questo modo chiudendosi molto. In realtà la scultura intesa come medium che si basa sullo spazio è solo uno dei miei tanti interessi e spesso penso a progetti che vi si discostano. Essendo però forse uno dei linguaggi con cui ho più dimestichezza, ricasco sempre in un modo o nell’altro nella realizzazione di oggetti tridimensionali. Forse è un bisogno che finora ho avuto, quello di concretizzare un’idea in un oggetto, chissà. In ogni caso entrambi i lavori che hai citato si basano su due idee semplici, quasi austere, che però credo si arricchiscono attraverso materiali e tecniche proprie del medium scultoreo. Quando ho cominciato a lavorare sulla serie Am Ende bleibt nur Ärger, per esempio, mi sono scontrato con dei limiti tecnici importanti e gli escamotages che ho adottato hanno contribuito in maniera determinante all’ampliamento della cornice concettuale del lavoro.

In altre opere ricorre invece la parola scritta, attivando una forma di narrazione che può risultare in apparenza più esplicita, ma che in realtà è tutt’altro che letterale, per esempio in Untitled (Tradition verpflichtet). Mi piace il modo in cui alterni tecniche artistiche e supporti e credo fermamente che l’artista non debba necessariamente vincolarsi a una riconoscibilità formale; tuttavia, vorrei chiederti se pensi che ciò possa rappresentare un limite per l’interesse che il tuo lavoro può suscitare.
Sinceramente no. Anzi, sono sempre stato affascinato da quelle artiste e quegli artisti di cui si riconosce il modo di pensare e la poetica prima dello stile formale. Posso dire che anche io aspiro a questo. Per esempio, due dei lavori che hai citato, Untitled (Tradition verpflichtet) e Double self-portrait as vases sono diversissimi formalmente ma io li considero due opere sorelle, nel senso che esprimono due sfumature della stessa idea. La differenza in questo caso credo stia nel come certe corde vengono pizzicate: con la parola o con l’immagine. Parola ed immagine che comunque utilizzo nel medesimo modo, avendole prese dallo stesso luogo, che è il mondo circostante. Untitled (Tradition verpflichtet) è questo, una poesia composta di frasi prese da sciarpe di club sportivi: “Obbligato alla tradizione/niente altro/e mai dimenticare/ma non il nostro amore”.
Il tuo orizzonte si apre anche a narrazioni antiautoritarie, per così dire, che danno alla tua pratica una dimensione più apertamente politica. Qual è l’equilibrio che cerchi tra “poetico” e “politico”?
Negli ultimi anni mi sono chiesto in maniera più forte che in precedenza che senso avesse continuare a fare arte, prima di tutto per me oggi, e quale fosse il mio ruolo come produttore. Questo gradualmente mi ha spinto a portare nel mio lavoro in maniera più esplicita un discorso politico. Trattandosi comunque di realizzazioni artistiche, credo che questo equilibrio sia fondamentale per poter mantenere l’opera “viva”. Cerco insomma che un lavoro si muova su più livelli, la cui combinazione possa eventualmente avvicinarsi a produrre significato. Se pensiamo alla serie di opere con le stampe su tessuto, per esempio, vi è il tema della genealogia delle immagini, ma anche quello dei significati emotivi che gli oggetti possono acquisire. Quella serie, come anche Untitled (Tradition verpflichtet), prende in considerazione inoltre un’intimità emotiva presente sia nella sfera poetica che in quella politica.





Vivi tra Monaco di Baviera e Bologna, dove hai uno studio al Collegio Venturoli. Difficoltà e opportunità di questa doppia residenza? E quale delle due realtà ti sembra offra maggiori prospettive?
Monaco e Bologna sono ben collegate, ma spostarsi a seconda dei progetti toglie energie e tempo alla pratica artistica stessa. Sono due città diametralmente opposte e anche le opportunità che i due contesti offrono sono differenti. Per me è sempre stato importante essere immerso in un contesto internazionale che purtroppo trovo un po’ carente in Italia. Per motivi anche solo geografici, ho l’impressione che in Italia si sia un po’ isolati rispetto al resto d’Europa, mentre vivere a Monaco mi ha spesso consentito di coltivare relazioni anche al di fuori della Germania. Cinicamente, in Baviera vedo più opportunità di sostegno concreto agli artisti, anche giovani, tra soluzioni burocratiche ad hoc e finanziamenti pubblici. In Italia c’è tantissimo fermento, ma mi sembra manchino le “infrastrutture”. In ogni caso uno dei vantaggi che apprezzo di più del vivere a metà tra questi due contesti è il fatto di poter avere uno sguardo quasi esterno su entrambi. È per me una ricchezza poter vedere le diverse sensibilità che gli artisti e la società hanno nei diversi luoghi.
A cosa stai lavorando ora?
Al momento sto lavorando a una serie di lavori a partire da materiale di archivio della mia famiglia, in particolare da dei disegni risalenti agli Anni Trenta. È forse il progetto più intimo su cui abbia lavorato finora, è una sfida per me. Ancora una volta si tratta principalmente di oggetti, ma anche di sperimentazioni con semplici tecniche di fotografia analogica.
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L’articolo "“Prendo in prestito le immagini del mondo”. Intervista all’artista Nicola Bizzarri " è apparso per la prima volta su Artribune®.