Più colore nei musei italiani. Un excursus da Winckelmann fino a Gino De Dominicis

  • Postato il 5 ottobre 2025
  • Arti Visive
  • Di Artribune
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Nell’editoriale pubblicato sul numero 84 di Artribune Magazine si è parlato dell’infausta moda di illuminare i dipinti con forti fasci di luce sagomati, che trasformano le tele in smartpainting.
Ora è il caso di spendere qualche parola sulle modalità di fruizione della scultura. Più che sul tema della luce – altrettanto centrale per statue e rilievi, che richiederebbero un’illuminazione diffusa e naturale, e invece sono spesso bersagliati da luci direzionate che distorcono i volumi e lasciano parti in ombra – si intende concentrare l’attenzione sul tema, contiguo, del colore.

Il colore nella scultura

 Si ha l’impressione che la condanna winckelmanniana del colore nella scultura si sia estesa anche agli spazi che accolgono le statue: spesso nei musei italiani, archeologici o meno, le pareti contro cui sono esposti i marmorei simulacri sono bianche, con un effetto tristanzuolo, e soprattutto con la conseguenza che i profili e in generale i volumi delle opere vengono smorzati, anziché risaltare contro uno sfondo di un altro colore (si veda da ultimo il riallestimento del Corridoio Vasariano con una teoria di busti antichi). Fatti salvi quei casi in cui l’effetto total white riesce ad attingere una significativa dimensione estetica e poetica (il più rilevante è probabilmente quello della Gipsoteca Canoviana di Possagno), in altre situazioni si potrebbe dare, per così dire, un tocco di colore, magari con tinte non troppo aggressive, magari evitando i pannelli (non di rado, anche loro, un po’ tristi) e intonacando direttamente le pareti (non saranno sempre intonaci vecchi di mille anni quelli delle sale dei nostri musei, no?).

I busti antichi nel Corridoio Vasariano degli Uffizi
I busti antichi nel Corridoio Vasariano degli Uffizi

Colori e sculture: gli esempi

Un rivestimento che si pone ottimamente al servizio di una buona ostensione della scultura, classica e non solo, è quello in mattoni, con le sue tinte calde e la sua origine naturale, che ben si sposa con la naturalezza del marmo e della pietra. Lo troviamo impiegato in importanti musei archeologici: dalla Glyptothek di Monaco di Baviera (dove però il laterizio a vista è una conseguenza dei danni dell’ultima guerra, quando le decorazioni neoclassiche degli ambienti andarono distrutte) al Museo Nacional de Arte Romano di Mérida, in Estremadura, gioiello di Rafael Moneo costruito tra il 1981 e il 1986, in cui il ricorso al rivestimento in laterizio delle pareti si inserisce in un discorso di ripresa di forme e volumi dell’architettura romana e meravigliosamente si presta, assieme a una luce in buona parte naturale, all’esposizione dei reperti dell’antica colonia di Emerita Augusta. A questi casi se ne può affiancare un altro, in cui a essere esposta non è la scultura classica, ma una gigantesca scultura della nostra epoca: la Calamita cosmica di Gino De Dominicis, che riposa nella ex chiesa della Santissima Trinità in Annunziata a Foligno, ormai divenuta l’immenso reliquiario dell’opera. Qui la presenza del mattone a vista è dovuta a una storia ancora diversa: il tempio, innalzato tra il 1760 e il 1765 su disegno dell’architetto Carlo Murena, rimase incompiuto, privo delle decorazioni interne. Per l’esposizione della Calamita questo è stato un bene: sicuramente lo “scheletrone” di De Dominicis è assai meglio leggibile nel contesto dell’attuale opus latericium, che non avvolto dagli intonaci chiari e dagli stucchi che avrebbero dovuto rivestire l’interno della chiesa.

Dagli antichi ai moderni: De Dominicis e i Marmi Torlonia

L’ostilità al colore sembra riguardare non solo gli spazi, ma le sculture stesse: non certo quando si trovano tracce della policromia originaria, che vengono attentamente preservate e, nel caso della scultura classica, danno il là a ricostruzioni in technicolor dell’aspetto primigenio delle statue; ma quando restauri troppo solerti nel riportare indietro le lancette del tempo si accaniscono a rimuovere ogni traccia del passaggio dei secoli, e dunque la famosa patina, quella particolare “pelle” che le opere prendono col tempo e che, nel caso dei marmi, dona loro un tono caldo di straordinario fascino. È pieno di sculture divenute di un candore abbacinante a seguito di un intervento di restauro: statue in esterno, al colmo di fontane, così come pezzi da collezione, a cominciare dai rischiaratissimi Marmi Torlonia. Questo peculiare colore del marmo andrebbe invece salvaguardato: il candore del materiale principe della scultura può essere esaltato non mediante puliture troppo invasive, ma grazie ad allestimenti in cui il colore giochi un ruolo significativo.

Fabrizio Federici

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L’articolo "Più colore nei musei italiani. Un excursus da Winckelmann fino a Gino De Dominicis" è apparso per la prima volta su Artribune®.

Autore
Artribune

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