Pfas, dai verdetti che faranno storia ai procedimenti in corso: tutti i fronti aperti, dopo anni di ritardi e scandali

  • Postato il 26 giugno 2025
  • Ambiente
  • Di Il Fatto Quotidiano
  • 1 Visualizzazioni

Dopo quattro anni e 130 udienze, la sentenza Miteni dà un nome alla più ampia contaminazione da Pfas registrata finora in Europa. Descrive responsabilità e ruoli nella diffusione degli inquinanti eterni. È un punto di arrivo, ma per molti versi è soprattutto un punto di partenza. Anche per le altre inchieste, processi, monitoraggi scattati in ritardo ma tuttora in corso in Italia. Sono passati quattordici anni dalla primavera del 2011, quando gli scienziati Sara Valsecchi e Stefano Polesello dell’Istituto di ricerca sulle acque del Cnr, iniziarono una raccolta di campioni in alcuni fiumi che li avrebbe portati fino al Vicentino, nell’area dell’azienda chimica Miteni di Trissino. Trovarono concentrazioni così elevate di Pfas che i valori erano persino fuori scala rispetto a quelli fino a quel momento disponibili nella letteratura scientifica. Da allora è accaduto di tutto, ma sono stati pochi i passi avanti fatti per davvero. L’altra vicenda giudiziaria, quella che coinvolge l’ex Solvay di Alessandria, oggi Syensqo, sembra essersi arenata dopo una serie di rinvii. Poche settimane fa, invece, proprio la scienziata Valsecchi, insieme a colleghi provenienti da tutto il mondo, ha segnalato i tentativi di modificare la definizione chimica degli inquinanti eterni e anche l’attuale governo italiano procedere in Parlamento a passi lentissimi, dopo i clamorosi ritardi del passato. Proprio da Vicenza (e da una storia che nasce alla Miteni) è arrivata però un’altra sentenza storica, perché per la prima volta un tribunale ha collegato direttamente il decesso di un lavoratore all’esposizione agli inquinanti eterni.

Un mese fa il primo riconoscimento del nesso tra esposizione e malattia – A maggio scorso, infatti, il giudice della sezione Lavoro del Tribunale di Vicenza ha riconosciuto un risarcimento agli eredi di Pasqualino Zenere, operaio alla Miteni di Trissino, collegando la sua morte alla contaminazione da Pfas. L’operaio, scomparso nel 2014 a causa di un tumore della pelvi renale, aveva lavorato nello stabilimento dal 1979, quando la Miteni si chiamava ancora Rimar e ha continuato a farlo fino al 1992. La famiglia aveva fatto causa all’Inail, che aveva respinto la richiesta di riconoscimento della rendita. E, a quel punto, si sono rivolti alla Cgil. Il giudice ha dato ragione agli eredi, riconoscendo che la morte dell’uomo è avvenuta a causa dell’esposizione ai Pfoa (acido perfluoroottanoico) e Pfos (acido perfluoroottansulfonico), utilizzate nello stabilimento, ma oggi vietate. Il primo, infatti, è identificato dall’Agenzia Internazionale per la Ricerca contro il Cancro come cancerogeno, mentre il Pfos è considerato probabile cancerogeno. La sentenza del Tribunale di Vicenza rappresenta un precedente importante: apre la strada della giustizia ambientale per chi è morto per essere venuto a contatto con i Pfas e può cambiare gli scenari, anche rispetto all’archiviazione di due anni fa, da parte del gip, dell’inchiesta per le malattie contratte dagli operai Rimar-Miteni.

Ex Solvay, il fascicolo davanti al gup – L’altra vicenda giudiziaria, invece, che ha visto al banco degli imputati dirigenti di un’azienda è quella tuttora aperta ad Alessandria. Un primo procedimento si era concluso nel 2019 con la sentenza della Corte di Cassazione che ha sancito il disastro innominato colposo, a carattere ambientale. Il terzo grado di giudizio ha confermato anche le condanne a un anno e otto mesi ciascuno (con la condizionale e non menzione ottenuta in Appello) per disastro ambientale a tre dirigenti del settore Ambiente e sicurezza, delle società Ausimont ed ex Solvay che si sono avvicendati nella gestione del polo chimico di Spinetta Marengo, ossia Giorgio Carimati, Giorgio Canti e Luigi Guarracino. In Appello erano già stati assolti gli amministratori delegati Carlo Cogliati, Bernard Delaguiche e Pierre Jacques Joris. Prescrizione, invece, per il manager Francesco Boncoraglio e assoluzione per difetto di dolo per l’ex dirigente Giulio Tommasi. Un secondo procedimento giudiziario, invece, è nato dopo l’esposto presentato nel giugno 2020 dall’avvocato Vittorio Spallasso, che rappresenta il Wwf Italia, per le fuoriuscite dallo stabilimento del C6O4, Pfas prodotto a Spinetta.

Il secondo procedimento: slitta anche l’ultima udienza – Chiuse le indagini a dicembre 2022, la Procura di Alessandria ha chiesto nel 2023 il rinvio a giudizio per il reato di disastro ambientale colposo per due direttori dello stabilimento Solvay. Il procuratore Enrico Cieri e il sostituto Eleonora Guerra hanno contestato l’ipotesi di reato a Stefano Bigini, direttore dello stabilimento dal 2008 e fino al dicembre 2018 e ad Andrea Diotto, da gennaio 2013 direttore dell’Unità di produzione fluidi e dal 1 settembre 2018 direttore di stabilimento. Il fascicolo è poi approdato davanti al giudice per l’udienza preliminare. Dopo le udienze di settembre e dicembre 2024, slittate rispettivamente per un cambio degli avvocati difensori della multinazionale e per l’inizio delle trattative con le parti civili (tra cui Regione e ministero dell’Ambiente), è saltata anche quella prevista proprio per il 26 giugno, lo stesso giorno dell’attesa sentenza Miteni. Il giudice per l’udienza preliminare, Andrea Perelli, ha rinviato il fascicolo al 12 marzo 2026, in un periodo che vedrà il Tribunale di Alessandria alle prese, tra l’altro, con il trasferimento di molti magistrati in altre sedi. Nel frattempo, i Comuni di Alessandria e Montecastello hanno accettato la proposta della multinazionale di circa 100 mila euro ciascuno. Il primo comune si era costituito parte civile per un danno d’immagine, mentre Montecastello chiedeva un risarcimento per aver dovuto chiudere, a scopo precauzionale, il pozzo che alimentava l’acqua potabile del paese a causa della presenza del Pfas C6O4.

Il caso dei vigili del fuoco – Un altro fronte aperto negli ultimi mesi, riguarda invece la morte di quattro vigili del fuoco che hanno prestato servizio ad Arezzo e l’indagine interna con cui si cerca di capire se può esserci una relazione con l’esposizione ai Pfas. Il 9 giugno scorso sono stati presentati alla Camera i risultati di un’analisi fatta eseguire dal sindacato Usb e da Greenpeace. Sono stati trovati Pfas nel sangue di 16 vigili del fuoco provenienti dai comandi di Catania, Padova, Verona, Alessandria, Genova e Pisa che hanno fatto volontariamente gli esami, ma anche nei dispositivi di protezione individuale (vecchi e nuovi, mai utilizzati) fatti analizzare in un laboratorio indipendente. Di fatto, nel 2023 dell’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro ha trattato proprio l’esposizione professionale dei vigili del fuoco (attraverso le schiume antincendio e l’utilizzo di dispositivi di protezione individuali), classificandola come cancerogena per l’uomo (Gruppo 1). In Liguria, dopo la denuncia del consigliere del M5S, Stefano Giordano, è stata votata all’unanimità un ordine del giorno che impegna la Regione ad attivarsi per avviare uno specifico biomonitoraggio dei livelli di Pfas tra i vigili del fuoco.

Il decreto dopo le inchieste e l’indagine di Greenpeace – Dopo scandali, processi e inchieste sugli inquinanti eterni, a marzo è approdato in Parlamento un decreto legislativo che punta a ridurre i limiti per la presenza nelle acque potabili di Pfas. Dopo anni di ritardi anche rispetto alle indicazioni dell’Istituto superiore di sanità, come raccontato da ilfattoquotidiano.it, il decreto legislativo 260 è stato approvato dal Consiglio dei Ministri lo scorso 13 marzo e poi trasmesso al Senato. Il testo introduce un nuovo valore limite di 20 nanogrammi per litro per la “Somma di 4 Pfas”, ovvero per quattro molecole di cui è già nota la pericolosità per la salute umana e già incluse nel parere Efsa del 2020, ossia Pfoa e Pfos, Pfna e PFHxS. Il provvedimento dell’esecutivo introduce, inoltre, il monitoraggio di altre sostanze della classe dei Pfas, le cosiddette molecole ADV prodotte in Italia dall’ex Solvay di Alessandria e un valore limite per il TFA (acido trifluoroacetico) pari a 10 microgrammi per litro (equivalenti a 10mila nanogrammi per litro). Si tratta della molecola della classe dei Pfas più abbondante sul pianeta e finora non sottoposta a restrizioni. È accaduto dopo che Greenpeace aveva rilevato per la prima volta la presenza diffusa di questo composto non regolamentato nelle acque potabili italiane, nell’ambito dell’indagine ‘Acque senza veleni”. La prima mappa italiana della contaminazione nelle acque potabili mostra una presenza diffusa di queste sostanze pericolose: le 58 molecole Pfas ricercate sono state riscontrare in 206 campioni su 260. Secondo Greenpeace, dunque, milioni di persone in tutta la Penisola hanno ricevuto nelle loro case acqua contaminata da alcuni Pfas.

L'articolo Pfas, dai verdetti che faranno storia ai procedimenti in corso: tutti i fronti aperti, dopo anni di ritardi e scandali proviene da Il Fatto Quotidiano.

Autore
Il Fatto Quotidiano

Potrebbero anche piacerti