Perché la risposta della ministra Bernini agli studenti che la contestano divide più della sua riforma

  • Postato il 12 dicembre 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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di Paolo Gallo

È una scena che colpisce: studenti che contestano una riforma universitaria complessa e divisiva, e una ministra che risponde con espressioni che li etichettano e li svalutano. Il punto non è giudicare l’emotività del momento, ma interrogarsi sul significato istituzionale e sociale di un linguaggio che, da un rappresentante dello Stato, assume un peso simbolico ben più grande di una semplice battuta stizzita.

Le istituzioni, in una democrazia matura, non hanno solo il compito di governare: devono anche incarnare un metodo, un tono, un esempio. È naturale che una figura pubblica venga contestata, soprattutto quando la posta in gioco riguarda il futuro formativo e professionale di migliaia di giovani. Ma è altrettanto naturale attendersi che la risposta istituzionale mantenga un livello di compostezza adeguato, non per formalismo, bensì per responsabilità. Le parole non sono un dettaglio: definiscono relazioni, costruiscono fiducia o la erodono.

L’etichettamento ideologico di studenti che esprimono timori e critiche può produrre effetti che vanno oltre la polemica contingente. Gli studi di psicologia sociale mostrano come il linguaggio divisivo, soprattutto se proveniente da figure di autorità, attivi dinamiche di polarizzazione e di esclusione. Il messaggio implicito rischia di essere: chi dissente non è un interlocutore, ma un avversario. E quando quest’avversario è composto da giovani che si affacciano alla vita adulta, il costo collettivo diventa evidente.

Gli studenti che protestano lo fanno quasi sempre perché vivono direttamente le conseguenze delle scelte politiche: pressioni, incertezze, timori per il proprio futuro. Ridurre queste istanze a slogan o categorie identitarie significa perdere l’occasione di ascoltare ciò che il Paese reale prova e chiede. Significa anche alimentare un sentimento di lontananza tra politica e nuove generazioni, una frattura che da anni rappresenta uno dei principali fattori di disaffezione verso la partecipazione democratica.

Una risposta diversa, più attenta e dialogica, non solo sarebbe stata più coerente con il ruolo di un membro del governo, ma avrebbe potuto trasformare un momento di tensione in un’occasione di confronto. Le istituzioni non sono obbligate a condividere le critiche, ma hanno il dovere di ascoltarle con rispetto. È questa la differenza tra un potere che si sente messo in discussione e una democrazia che si sente arricchita dal dissenso.

Le parole della ministra non cambieranno la sostanza della riforma, né la determinazione degli studenti. Ma contribuiscono a definire un clima. Un clima in cui il dialogo rischia di essere sostituito da etichette, e in cui il confronto, invece di migliorare le decisioni, viene relegato a scontro identitario.

L’Italia ha bisogno dell’energia, della competenza e delle domande dei suoi giovani. E i giovani hanno bisogno di istituzioni che rispondano con rigore, fermezza, ma anche rispetto. Perché è da questo equilibrio che nasce la fiducia. E senza fiducia, nessuna riforma può davvero funzionare.

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Il Fatto Quotidiano

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