Perché il rapporto sull’economia del genocidio a Gaza ci riguarda da vicino

  • Postato il 4 luglio 2025
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di Roberto Iannuzzi *

Lo sterminio in corso a Gaza non è un evento che riguarda una terra lontana o una realtà che ci è estranea. Al contrario, è uno specchio del nostro mondo, un processo fondato anche su logiche di mercato, su reti logistiche e sistemi di produzione occidentali, un laboratorio dove si sperimentano nuove tecnologie che vengono poi esportate in tutto il mondo.

A mostrarlo mirabilmente è un coraggioso rapporto appena pubblicato dalla relatrice speciale dell’Onu sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati, l’italiana Francesca Albanese.

Come chiarisce questo documento, ricchissimo di dati e riferimenti imprescindibili, quello palestinese non è un caso isolato neanche dal punto di vista storico, inserendosi nel quadro di un annoso processo di espropriazione delle terre dei popoli indigeni per mano di un sistema di dominazione definito da alcuni studiosi come “capitalismo coloniale a sfondo razziale”.

A sostenere l’occupazione israeliana dei territori palestinesi, ed ora una violentissima operazione militare a Gaza che sia l’Onu che organizzazioni internazionali come Amnesty International, Human Rights Watch e Médecins Sans Frontières (MSF) hanno definito “genocidaria”, è infatti un sistema di tipo capitalistico ramificato in tutto l’Occidente (e non solo). Il rapporto definisce quello palestinese un “mercato coatto” a seguito delle restrizioni imposte da Israele al commercio, agli investimenti, e all’impiego delle risorse naturali del territorio. Imprese di molteplici nazionalità (principalmente occidentali, ma anche di paesi nominalmente amici dei palestinesi) hanno tratto profitto da questo mercato coatto, sfruttando la manodopera e le risorse palestinesi, contribuendo alla costruzione e all’economia delle colonie israeliane, e più in generale al sistema economico dell’occupazione.

Mentre Israele guadagna da questo meccanismo di sfruttamento, esso costa ai territori palestinesi almeno il 35% del Pil, secondo il rapporto dell’Onu. Banche, società di gestione patrimoniale, fondi pensione, assicurazioni hanno immesso fondi nell’occupazione israeliana, illegale anche secondo un recente verdetto della Corte Internazionale di Giustizia. Persino le università, israeliane e occidentali, hanno contribuito a sostenere l’ideologia alla base dell’occupazione, e prodotto ricerca militare finalizzata a rafforzare il controllo israeliano sui territori palestinesi.

Una delle ragioni per cui “il genocidio di Gaza non si è fermato”, ha dichiarato Albanese al giornalista americano Chris Hedges, è che esso “è redditizio, è vantaggioso per troppe persone”. E i profitti “sono perfino aumentati mentre l’economia di occupazione si trasformava in un’economia di genocidio”.

Il sistema capitalistico può essere impiegato con la stessa efficienza per la produzione come per la distruzione. Le tecnologie di controllo e sorveglianza di massa applicate nei territori occupati si sono evolute in strumenti per colpire indiscriminatamente la popolazione palestinese. I macchinari pesanti utilizzati per le demolizioni in Cisgiordania sono stati riutilizzati per smantellare le città della Striscia.

Il conflitto di Gaza è servito anche per testare piattaforme di difesa aerea, droni, sistemi di selezione dei bersagli basati sull’intelligenza artificiale (IA). Queste tecnologie “testate in battaglia” vengono poi rivendute sui mercati mondiali.

Il rapporto elenca industrie di mezzo mondo che sono coinvolte a vari livelli nel sistema di sterminio in atto nella Striscia. Esso rileva che fra il 2023 e il 2024 le spese militari israeliane hanno registrato un aumento del 65%, raggiungendo i 46,5 miliardi di dollari. Questo denaro ha generato enormi profitti per le industrie israeliane e occidentali del comparto della difesa, ma anche di altri settori. A sostegno dello sforzo bellico israeliano si è infatti costituita un’intera “logistica di guerra” internazionale.

Il rapporto cita compagnie di navigazione come la danese Maersk che hanno contribuito al trasporto di componentistica, armi e materie prime; imprese come la giapponese Fanuc che hanno fornito macchinari robotizzati per le linee di produzione dell’industria bellica israeliana e americana coinvolta nel conflitto. L’Ibm, che in passato collaborò con la Germania nazista, garantisce formazione informatica e tecnologica agli apparati militari e di intelligence israeliani.

Il ministero della difesa israeliano ha stretti rapporti di collaborazione con altri giganti della Big Tech americana, da Google a Microsoft, ad Amazon. L’americana Palantir, all’avanguardia nell’applicazione dell’intelligenza artificiale all’ambito bellico, ha fornito a Israele software militare, in particolare la sua piattaforma di IA che permette l’analisi in tempo reale dei dati del campo di battaglia finalizzata all’elaborazione di un processo decisionale automatizzato.

Le banche occidentali, dal canto loro, hanno acquistato i titoli emessi da Israele per finanziare le proprie spese di guerra.

Un intero ecosistema logistico, industriale e finanziario internazionale ha operato al servizio dell’azione militare israeliana, traendone enormi profitti.

L’aspetto che fa riflettere e rabbrividire è che né i dirigenti delle imprese e degli istituti finanziari che prendono parte a questo meccanismo, né i governi dei paesi ai quali questi soggetti economici appartengono, hanno minimamente ostacolato questo processo industriale e tecnologico di sterminio e distruzione.

*Autore del libro “Il 7 ottobre tra verità e propaganda. L’attacco di Hamas e i punti oscuri della narrazione israeliana” (2024).
Twitter: @riannuzziGPC
https://robertoiannuzzi.substack.com/

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