Perché gli orsi piumati di Paola Pivi sono diventati icone pop dell’arte contemporanea internazionale

  • Postato il 4 luglio 2025
  • Libri E Arte
  • Di Il Fatto Quotidiano
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Ironici, leggeri, simpatici e irresistibili: gli orsi di Paola Pivi sono tra le sue opere più celebri e, allo stesso tempo, tra le più enigmatiche. Le loro pose buffe e le piume sgargianti hanno spesso portato il pubblico a interpretarli come metafore socio-ambientaliste — una lettura che l’artista ha fatto propria, pur precisando che la loro origine risiede altrove. Dietro queste creature accoglienti e imponenti, infatti, non si cela tanto un gesto di denuncia, quanto un inno alla gioia, alla catarsi e alla trasformazione di un sentimento primordiale: la paura. Ce lo ha raccontato lei stessa, in una serie di generosi scambi dal vivo, per e-mail e al telefono, trasformati in vere e proprie riflessioni condivise. Questo racconto, dunque, è stato da lei approvato e autenticato.

Il progetto nasce nel 2007, in occasione della mostra The Hamsterwheel, curata da Franz West, a latere della Biennale di Venezia, dopo un percorso interiore tanto travagliato quanto lucido. Dal 2006 Paola Pivi viveva in Alaska, un luogo selvaggio che l’aveva profondamente segnata sin dal suo primo viaggio nel 1996. Durante le sue prime esplorazioni in Alaska, era andata ingenuamente alla ricerca degli orsi, creature autoctone tanto affascinanti quanto temute. L’incontro — o forse, più ancora, il rischio stesso dell’incontro — le aveva trasmesso un timore istintivo e profondo. Eppure, come spesso accade agli esseri umani di fronte all’ignoto, quella paura si era presto trasformata in qualcosa di più sottile e fertile: un’attrazione per ciò che non si conosce, un abbandono fiducioso a quel disordine che, nella natura, è in realtà espressione di un ordine superiore e vitale. L’intuizione iniziale fu allora quella di rappresentare due orsi — un grizzly e un polare, che in natura non convivono — mentre danzano insieme. Un gesto poetico e simbolico per raccontare la gioia autentica che nasce non dal controllo, ma dall’accettazione della natura più selvatica e istintiva. Ma come celebrare la vita ricorrendo a vere carcasse imbalsamate, intrinsecamente legate alla morte?

La risposta arrivò in modo inaspettato, quasi folgorante. Colpita da un boa di piume giallo fluo indossato da una collaboratrice, Pivi concepì un’alternativa radicale: creare sculture di orsi interamente artificiali, ricoperti di piume. Nacquero così i primi quattro orsi piumati, tutti rigorosamente gialli, realizzati tra il 2007 e il 2008. Il primo si intitolava “What is my name”. Dal 2013 il progetto si espande e si affina. Anche grazie al dialogo costante con il gallerista Emmanuel Perrotin. Il linguaggio di queste creature si arricchisce così di nuove possibilità: i colori si moltiplicano, gli orsi assumono pose nuove e identità inedite — da figure solitarie a ballerini, pensatori, presenze quasi teatrali.

Tutti gli orsi di Pivi si ispirano a modelli reali — per lo più orsi polari maschi adulti, anche se non mancano alcune “orse” — da cui derivano la scala imponente e la presenza quasi monumentale. Nel 2019, in un momento di svolta personale segnato dall’arrivo di suo figlio — che, durante un soggiorno in India nel 2012, “scelse” lei e il marito come genitori — nasce l’opera We are the baby gang. Un controcanto tenero e ironico: settanta piccoli orsi piumati invadono lo spazio espositivo come un’orda coloratissima. Qui, la monumentalità cede il passo alla molteplicità e alla gioia, in un’esplosione di vitalità che trasforma l’idea di forza in un gioco corale e disarmante.

Gli orsi di Paola Pivi nascono ogni volta diversi, modellati sulle pose e sui movimenti che l’artista immagina per loro. Corpi in potenziale mutamento, pronti a dissolversi, quasi a diventare invisibili. Non è un caso: per Pivi, il movimento è essenziale, nella vita come nell’opera. Lo dichiara con chiarezza: “Nel movimento l’identità scompare”. Nomade per natura e per scelta, non vive mai a lungo nello stesso luogo, abbracciando un’esistenza scandita dal transito e dal cambiamento. Dopo gli studi in ingegneria, ha persino insegnato aerobica: il corpo in azione come mezzo per esistere, ma anche per sottrarsi, sfuggendo a ogni fissità. Questo slittamento continuo tra presenza e assenza attraversa anche altre sue opere, come le celebri installazioni cinetiche di aerei che volteggiano e sfidano la gravità, incarnando il movimento come respiro stesso della forma.

Sulle piume — a cui non ha mai voluto rinunciare — si gioca uno degli snodi più delicati e poetici del lavoro di Paola Pivi. Sono il segno di una scelta radicale e consapevole: leggere, vive, delicate, rappresentano tutto ciò che è lontano dalla morte e dalla violenza. “Prendete la vita con leggerezza, che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore”, scriveva Italo Calvino nelle Lezioni americane (1985). Le piume sembrano incarnare proprio questo invito. Come sogni posatisi su corpi colossali, trasformano l’orso da simbolo di paura a emblema di gioia. Non celano la ferocia: la trasmutano. Offrono un’altra possibilità, un altro racconto. Nomade e cittadina di un mondo che sa di non appartenere all’essere umano — fatto di natura autentica e libertà — Paola Pivi sceglie di restare in contatto con l’essenza primitiva delle cose. I suoi orsi, sospesi tra umano e animale, tra gioco e sacro, ci ricordano che anche nella leggerezza può annidarsi il mistero, e soprattutto un profondo rispetto per la vita e per noi stessi.

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Il Fatto Quotidiano

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