Ostaggi israeliani liberati: corpi devastati, menti spezzate. E in Italia c’è chi manifesta ancora per i loro carcerieri
- Postato il 15 ottobre 2025
- Di Panorama
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Le condizioni degli ostaggi israeliani appena liberati da Hamas, dopo due anni di prigionia nei sotterranei di Gaza, sono state descritte come terrificanti. I medici che li hanno presi in carico parlano di organismi distrutti dalla fame e dall’isolamento, e di ferite mentali che richiederanno anni per rimarginarsi. Le prime valutazioni cliniche indicano che la maggior parte dei rilasciati è in stato di grave denutrizione: alcuni hanno perso tra un terzo e quasi la metà del peso corporeo, mostrando segni di atrofia muscolare, gravi carenze nutrizionali e danni permanenti alla pelle e agli occhi. Tutti hanno vissuto per lunghi periodi senza luce solare, in cunicoli angusti e privi di ventilazione, dormendo su pavimenti di cemento e ricevendo porzioni di cibo minime, spesso contaminate. Avinatan Or è uno dei casi più emblematici. Ha perso circa il 40% del peso e, secondo i medici, soffre di scompensi metabolici tali da rendere difficile persino la reintroduzione graduale di alimenti normali. Ariel Cunio, liberato insieme a lui, si trova in condizioni paragonabili: il sistema immunitario è quasi collassato dopo mesi di malnutrizione e mancanza di igiene.
Ancora più drammatica è la situazione di Elkana Bohbot, tenuto incatenato per due anni nei tunnel. Soffre di gravi disturbi intestinali e dolori cronici. Negli ultimi giorni prima del rilascio, i carcerieri gli avrebbero imposto di mangiare in eccesso, nel tentativo di mascherare le reali condizioni degli ostaggi agli occhi della Croce Rossa. Il soldato Matan Angrest, rapito mentre era in servizio su un carro armato, ha riportato ferite alla testa e fratture multiple dovute alle percosse subite durante gli interrogatori. I gemelli Gali e Ziv Berman sono rimasti segregati in celle separate per tutto il periodo della prigionia e non hanno avuto notizie l’uno dell’altro fino al giorno del rilascio.
I prigionieri liberati sono stati trasferiti in diversi ospedali israeliani – Tel Hashomer, Beilinson e Sheba – dove sono sottoposti a trattamenti di emergenza. I medici raccontano che molti di loro reagiscono con panico a stimoli banali, come una luce improvvisa o il rumore di una porta. Non riescono a dormire, hanno incubi ricorrenti e faticano a comunicare. Alcuni non parlano affatto: rispondono solo con cenni del capo o monosillabi, come chi ha dimenticato il linguaggio della vita quotidiana. Un comunicato del Centro di riabilitazione Sheba riferisce che le loro condizioni «sono più gravi di quanto fosse stato previsto», mentre psicologi militari parlano di traumi comparabili a quelli dei sopravvissuti ai lager. Gli esperti spiegano che la prolungata assenza di luce, le privazioni fisiche e la paura costante hanno prodotto danni neurologici e psicologici irreversibili.
Molti ostaggi ignoravano completamente ciò che era accaduto il 7 ottobre 2023, il giorno del loro sequestro. Alcuni pensavano che la guerra fosse finita da tempo, altri non avevano idea se i loro familiari fossero vivi o morti. Le prime notizie ricevute dopo la liberazione sono state per molti uno shock devastante. Un ufficiale dell’IDF ha raccontato che, durante le ultime settimane di detenzione, i rapiti venivano spostati frequentemente da un tunnel all’altro, per evitare di essere localizzati dai raid israeliani. Molti hanno percorso chilometri a piedi nudi nel fango, in cunicoli pieni di ratti e detriti, aggravando piaghe e infezioni già in atto.Il sistema sanitario israeliano ha messo in piedi una rete d’emergenza che coinvolge psichiatri, nutrizionisti, fisioterapisti e medici militari, con l’obiettivo di accompagnare gli ostaggi in un percorso di recupero che si preannuncia lungo e incerto. Lo Stato ha inoltre stanziato fondi per l’assistenza a lungo termine e programmi di reintegrazione sociale, ma gli specialisti avvertono che il trauma psicologico potrebbe non guarire mai del tutto.
Le famiglie, pur sollevate, descrivono un dolore misto alla gioia. «Li abbiamo riabbracciati, ma non sono più gli stessi», ha detto la sorella di uno degli ostaggi. «Sono tornati, ma dentro restano prigionieri». Il rilascio è avvenuto nell’ambito dell’intesa mediata da Stati Uniti, Egitto e Qatar, che prevede anche la restituzione dei corpi degli ostaggi uccisi. Tuttavia, la liberazione dei sopravvissuti ha svelato il volto più oscuro dei tunnel di Hamas: celle sotterranee scavate nella sabbia, nessuna luce, acqua razionata, un secchio per i bisogni, e silenzio assoluto imposto dai carcerieri. Uno dei medici che ha seguito i primi esami ha sintetizzato così la situazione: «Non abbiamo di fronte solo persone malnutrite, ma esseri umani che hanno dimenticato cosa significhi vivere».Oggi i medici avvertono che la parte più dura comincia adesso. Le condizioni in cui gli ostaggi israeliani sono stati ritrovati, dopo quasi due anni di prigionia nei tunnel di Gaza, sono il riflesso più crudo di una disumanità pianificata. Corpi consumati dalla fame, occhi che faticano a sopportare la luce del sole, menti smarrite in un silenzio che non finirà con la libertà. La fame, il buio e la paura sono diventati il loro unico linguaggio per mesi, forse anni. Ora li attendono ospedali, psicologi, e una lunga, incerta risalita verso la normalità – una normalità che forse non tornerà mai del tutto. E mentre loro, laceri e spettrali, imparano di nuovo a respirare, lontano dai tunnel e dalle catene, in Italia c’è chi ancora scende in piazza per inneggiare ai loro carcerieri, chi sventola le bandiere di Hamas e ne ripete la propaganda come fosse resistenza. È l’amarezza più grande: vedere la libertà sbandierata da chi la nega agli altri, la solidarietà tradita da slogan vuoti, e il dolore di uomini e donne ridotti all’ombra di se stessi ridicolizzato da chi non ha mai visto la faccia del male. Per quegli ostaggi la guerra non è finita: è appena cominciata, dentro di loro. Eppure, a migliaia di chilometri di distanza, c’è chi manifesta non per loro, ma per chi li ha tenuti in catene. Una ferita morale che brucia quanto le loro cicatrici.