Non esistono strategie di breve periodo. La lezione di Freedman letta da Del Monte
- Postato il 21 aprile 2025
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- Di Formiche
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L’analisi dei costi-benefici adattata al fenomeno bellico evidenzia come la conduzione di guerre di breve durata porti a sacrifici nettamente minori dei vantaggi che si otterrebbero in caso di vittoria. Parimenti, ogni ipotesi di conflitto che possa assumere la parvenza degli scontri d’attrito viene, sostanzialmente, allontanata.
La rapida vittoria statunitense nella Prima guerra del Golfo ha generato l’illusione secondo cui la superiorità tecnologica avrebbe portato a sconfiggere più rapidamente gli avversari e a diminuire i costi delle risorse impiegate. Il fallimento delle operazioni americane in Iraq e Afghanistan – nate per essere “guerre brevi” – ha mostrato la fallacia della “revolution in military affairs” datata 1991.
Su “Foreign Affairs”, è stato pubblicato il saggio dello storico militare britannico Lawrence D. Freedman, “The Age of Forever Wars“, nel quale l’autore ha spiegato che “la fissazione per la velocità è così radicata che generazioni di comandanti militari statunitensi hanno imparato a rabbrividire alla menzione della guerra di attrito, abbracciando la manovra decisiva come rotta per vittorie rapide”, mentre nel conflitto che si combatte in Ucraina “entrambe le parti hanno già speso risorse straordinarie, e nessuna delle due è vicina a qualcosa che assomigli a una vittoria. Non tutte le guerre sono condotte con un’intensità così elevata come la guerra russo-ucraina, ma anche una guerra irregolare prolungata può implicare un pesante tributo”.
Non è un caso che la vasta letteratura dedicata alla teoria e allo studio delle “small wars” abbia evidenziato i rischi connessi alle guerre che, pianificate per essere brevi, si siano rivelate, al contrario, lunghe e costose. L’idea espressa in tal senso dall’ufficiale dei Royal Engineers inglesi e veterano della Guerra anglo-zulu, Reginald da Costa Porter (1850-1882), sul recupero dei principi della guerra regolare che potrebbero essere applicati alla guerra irregolare, ha anticipato il recupero odierno – di converso – delle tattiche dei conflitti asimmetrici per combattere quelli convenzionali, che, a volte, ne ricalcano le caratteristiche (empty battlefield e dispersione delle forze, avanzate in profondità di colonne, estensione e pesantezza delle linee logistiche, difficoltà di costruire strategie e tendenze operazionali razionali).
Ancora una volta i problemi delle guerre convenzionali e delle “small wars” si somigliano ed hanno, come minimo comune denominatore, il consumo generalizzato di risorse – ivi comprese quelle umane – che, nella logica dei conflitti brevi (quelli “perfetti” ai quali ci si prepara), non è un fattore contemplato. Secondo Freedman (che è stato uno dei teorici della “Dottrina Blair” e lo storico ufficiale britannico della Guerra delle Falkland), lo sviluppo di strategie “presentiste”, ovvero di piani di guerra basati sull’ipotesi della “superiorità oggettiva”, implicano un elevato rischio di mancato o errato apprezzamento dei limiti intrinsechi che lo strumento militare all’atto pratico del combattimento possiede e dell’imponderabilità assoluta di quello “scontro di volontà contrapposte” – per dirla come Clausewitz – che è la guerra.
Utilizzando un gioco di parole, si potrebbe dire che, evidenziando i rischi connessi ad una pianificazione (financo politica e finanziaria, non solo militare in senso stretto) “metodistica” dei conflitti, Freedman abbia voluto mettere in guardia circa l’idea delle “strategie anti-strategiche”. Lo storico britannico ha scritto che “la sfida non è semplicemente pianificare guerre lunghe anziché brevi, ma pianificare guerre che abbiano una teoria praticabile della vittoria, con obiettivi realistici, indipendentemente dal tempo che possa volerci per conseguirli”.