Meloni voleva colpire “i giganti del web”, ora si impegna a non colpire Big tech. Che fine farà la digital tax italiana?
- Postato il 19 aprile 2025
- Economia
- Di Il Fatto Quotidiano
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Giorgia Meloni uscirà pure rafforzata sul piano interno dalla visita alla Casa Bianca, ma è tornata a Roma con una grana in più nel rapporto con gli alleati. Perché nella dichiarazione congiunta diffusa dalla Casa Bianca dopo l’incontro con Donald Trump compare una frase che prelude all’eliminazione, o almeno a sostanziali modifiche, alla web tax italiana. Che colpisce con un’aliquota del 3% i ricavi – non gli utili – realizzati in Italia attraverso pubblicità digitale, accesso alle piattaforme web e trasmissione di dati raccolti dagli utenti da aziende con ricavi globali sopra i 750 milioni. Già lo scorso autunno, in fase di preparazione della legge di Bilancio per il 2025, il ministero dell’Economia ha tentato di modificare quella norma che al momento frutta circa 400 milioni di gettito annuo proprio per rispondere alle contestazioni di Washington, ma la maggioranza si è divisa e non se è fatto nulla. Ma ora il dossier torna in cima alle priorità.
Nel comunicato, i due leader scrivono infatti di aver “convenuto che un ambiente non discriminatorio in termini di tassazione dei servizi digitali è necessario per consentire gli investimenti delle aziende tecnologiche all’avanguardia“. Sembra quindi di capire, innanzitutto, che i piani di Microsoft e di Amazon Web Services per ampliare la propria presenza in Italia siano appesi alla disponibilità di Roma a fare marcia indietro sulla sua imposta sulle transazioni digitali nata con l’intento di colpire i “giganti del web“. Il resto è sottinteso, ma solo perché il presidente Usa l’ha già chiarito in uno dei primi memorandum firmati dopo l’insediamento, quello con cui ha sancito la “nullità” negli Stati Uniti dell’intesa sulla tassazione delle multinazionali firmata nel 2021 in sede Ocse: i Paesi che adottano “misure fiscali discriminatorie” nei confronti dei gruppi statunitensi saranno soggetti a ritorsioni che vanno ben oltre i dazi. L’amministrazione Trump potrebbe addirittura decidere di raddoppiare le aliquote fiscali applicate a cittadini e aziende italiani.
La premier si è dunque impegnata perlomeno a rivedere l’imposta che nel 2018, quando il governo Conte 1 l’ha varata, criticava solo perché troppo blanda, chiedendo che fosse rafforzata per colpire seriamente i “colossi del web” e “ristabilire l’equità fiscale tra pmi e multinazionali“. Suggestione che da allora ha ribadito più volte (vedi tweet sotto). La web tax è stata poi effettivamente applicata a partite dal 2021: doveva essere misura transitoria in attesa dell’entrata in vigore del “primo pilastro” dell’accordo Ocse sulla tassazione delle multinazionali, che consentirebbe a tutti i Paesi in cui i grandi gruppi realizzano le loro vendite di tassarli direttamente. A fine 2021 Austria, Francia, Italia, Spagna e Regno Unito avevano firmato con Washington un compromesso: avrebbero mantenuto le loro web tax senza rischiare contromisure punitive e in cambio una parte del dovuto sarebbe stata riconosciuta come deducibile dalle imposte calcolate in base al primo pilastro, una volta recepito. Il che però non è mai successo perché al Senato Usa non c’è – come non c’era nemmeno sotto la presidenza Biden – la maggioranza necessaria per far passare il trattato fiscale internazionale necessario. Nel frattempo a fine giugno 2024, come ricorda lo US Trade Representative nel rapporto sulle barriere commerciali che danneggiano le imprese Usa, l’accordo che escludeva ritorsioni è scaduto. E il Rappresentante per il Commercio è stato incaricato di riaprire le indagini sulle Digital service tax.
I “super ricchi” da tassare sono i giganti del web, le banche e le multinazionali che eludono le tasse che dovrebbero pagare all’Italia. Grillo e Di Maio facciano qualcosa per far versare le giuste imposte a chi non lo fa, invece di fare gli utili idioti della sinistra. (1/2) pic.twitter.com/mhALUphpjd
— Giorgia Meloni (@GiorgiaMeloni) December 4, 2020
In questo quadro lo scorso anno via XX Settembre, nel ddl di Bilancio, aveva proposto di estendere la web tax anche alle piccole imprese proprio per evitare l’accusa di “discriminazione” a danno delle multinazionali statunitensi. Forza Italia si è opposta – il capogruppo azzurro al Senato Maurizio Gasparri va ripetendo da anni che bisogna “tassare di più big tech” – e il blitz è sfumato. Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha più volte auspicato che il tema della tassazione dell’economia digitale non sia affrontato unilateralmente ma a livello europeo: del resto la Commissione già nel 2020 aveva ipotizzato l’istituzione di una digital tax con cui raccogliere risorse per ripagare i prestiti e pagare gli interessi sulle emissioni di debito comune con cui è stato finanziato il Next Generation Eu. Poi non se n’è fatto nulla. Il tema è tornato alla ribalta dopo l’annuncio di Trump sui dazi reciproci, con la web tax europea come “pistola sul tavolo” nelle trattative con la Casa Bianca. Ma ora la palla è nel campo dell’Italia, visto che Roma ha messo nero su bianco di voler levare di mezzo ogni misura che il tycoon ritenga nociva per Google, Facebook, Apple e Amazon. Spetterà a Giorgetti, che la settimana prossima incontrerà il segretario al Tesoro Scott Bessent durante le riunioni di primavera del G20 a Washington, capire come uscirne.
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