LOS ANGELES SOTTO SCACCO
- Postato il 10 giugno 2025
- Attualità
- Di Paese Italia Press
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di Francesco Mazzarella
Los Angeles, simbolo globale della diversità e della creatività urbana, è oggi una città ferita, sotto assedio e profondamente divisa. L’operazione federale condotta nei primi giorni di giugno 2025 ha aperto un fronte di crisi che va ben oltre la cronaca di scontri e proteste: ciò che sta accadendo è il risultato diretto di un confronto istituzionale, politico e ideologico tra due visioni opposte d’America. E il rischio concreto è che a rimetterci sia la tenuta stessa della democrazia liberale statunitense.
Tutto è iniziato con una serie di raid da parte degli agenti dell’ICE (Immigration and Customs Enforcement), supportati da FBI, ATF e Homeland Security. Gli arresti – 44 in totale – si sono concentrati in zone economicamente marginali ma ad altissimo tasso di presenza latina e migrante: magazzini tessili, cooperative di pulizie, centri di distribuzione merci, cantieri. Tra gli arrestati figura anche David Huerta, figura storica dei diritti sindacali. La retorica ufficiale ha parlato di operazione “contro l’illegalità economica”, ma la realtà dei fatti ha mostrato l’ennesimo colpo alle fasce vulnerabili, soprattutto migranti, spesso senza tutele e già colpiti duramente dalla crisi sociale post-pandemia.
La risposta popolare è stata immediata. Cortei spontanei, blocchi stradali, occupazioni simboliche, sit-in. La città ha reagito con rabbia, ma anche con paura. Decine di migliaia di persone sono scese in strada, trovandosi presto di fronte a reparti speciali dotati di lacrimogeni, proiettili di gomma, droni e mezzi blindati. Alcune manifestazioni si sono trasformate in guerriglia urbana: cassonetti incendiati, vetrine infrante, auto rovesciate. Almeno 27 feriti, tra cui giornalisti e studenti, e oltre 70 arresti documentati. La violenza è stata reciproca, ma la sproporzione dei mezzi impiegati dallo Stato è apparsa evidente anche agli osservatori esteri.
Il passaggio successivo ha spiazzato molti: la Casa Bianca ha deciso di inviare oltre 4.000 uomini della Guardia Nazionale e reparti selezionati dei Marines direttamente sul territorio urbano, senza alcun consenso formale da parte del governatore della California o delle autorità locali. La decisione è stata giustificata come “necessaria per ristabilire l’ordine pubblico e difendere la sovranità nazionale”, ma nella sostanza ha rappresentato un gesto di forza che rompe un delicato equilibrio federale. Non accadeva dal secondo dopoguerra che un presidente impiegasse truppe regolari in una grande città americana senza mediazione statale.
Il governatore Gavin Newsom ha parlato di “atto eversivo” e ha subito ritirato le risorse statali, avviando ricorso legale contro il governo federale. La sindaca di Los Angeles, Karen Bass, ha denunciato “una militarizzazione indegna di uno Stato democratico” e ha chiesto protezione per i cittadini migranti. L’America è apparsa improvvisamente divisa non solo sul piano ideologico, ma anche istituzionale. Il rischio concreto è l’erosione dei principi costituzionali che regolano il rapporto tra Stato e federazione.
Il presidente Trump, dal canto suo, ha capitalizzato politicamente l’intervento, definendolo “esemplare” e rivendicando il dovere di ogni presidente di “difendere la nazione dalle infiltrazioni illegali e dal caos urbano fomentato dalla sinistra radicale”. Il messaggio è chiaro: davanti a un’opinione pubblica spaventata dall’instabilità, la forza è l’unica risposta tollerata. Ma questa narrativa, studiata per galvanizzare la propria base elettorale, rischia di legittimare una pericolosa deriva autoritaria, in cui il dissenso civile viene trattato come minaccia interna.
I danni non sono solo politici. L’immagine di Los Angeles, a meno di un anno dalla Coppa del Mondo 2026 e a tre anni dalle Olimpiadi 2028, è gravemente compromessa. Il tessuto economico – turismo, eventi, commercio internazionale – rischia un contraccolpo durissimo. Sponsor internazionali stanno già rivalutando la propria presenza. Alcuni governi stranieri, tra cui quelli dell’America Latina, hanno chiesto spiegazioni ufficiali al Dipartimento di Stato per il trattamento riservato ai cittadini di origine ispanica. La crisi è ormai globale.
Eppure, ciò che rende davvero drammatica questa vicenda non è solo l’uso sproporzionato della forza o l’irruzione dell’esercito nelle strade americane, ma la rottura del patto democratico tra cittadini e istituzioni. Le comunità migranti si sentono abbandonate, criminalizzate, perfino perseguitate. Una generazione intera di giovani americani nati da famiglie latine cresce nel sospetto e nella paura, guardando a una patria che li considera “ospiti indesiderati” e non cittadini. In questo contesto, la sfiducia verso le istituzioni rischia di diventare irreversibile.
La crisi di Los Angeles non è solo una questione locale. È lo specchio di un’America che si sta giocando il suo futuro a colpi di slogan, decreti e divise. Un Paese in cui le città più popolose e multietniche si trovano in rotta di collisione con il potere centrale. Un Paese in cui l’immigrazione è diventata terreno di scontro politico permanente, in cui il rispetto delle autonomie locali viene sacrificato sull’altare della sicurezza. Un Paese in cui le libertà civili rischiano di essere riscritte nei fatti, prima ancora che nella legge.
Se la politica americana non sarà capace di rimettere al centro il dialogo costituzionale, la coesione sociale e il rispetto delle differenze, ciò che sta accadendo a Los Angeles potrebbe non restare un caso isolato, ma diventare un modello. Un modello distorto, pericoloso, che trasforma la paura in consenso e la repressione in ordine. Un modello che porta con sé l’ombra di un autoritarismo che nessuna Costituzione potrà più contenere, se la coscienza civile non reagirà in tempo.
In questo senso, il futuro di Los Angeles è il futuro dell’America. E, forse, anche il nostro.
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