Lo ‘scontro’ tra Fiano e gli studenti a Ca’ Foscari non riguarda il metodo ma una questione politica: il sionismo oggi

  • Postato il 31 ottobre 2025
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di Lucio Aquilina

Lo “scontro” all’Università Ca’ Foscari di Venezia tra Emanuele Fiano, deputato del Pd, e alcuni studenti è stato presentato — da Fiano sulla stampa e anche da Serra su Repubblica — come una questione di metodo. In realtà riguarda un contenuto profondamente politico. A Fiano, che si è presentato come ebreo e sionista, gli studenti non hanno contestato l’appartenenza religiosa o etnica, bensì il significato politico della sua presenza.

Nel manifesto (2005) di Sinistra per Israele di cui Fiano è presidente si legge che “è storicamente sbagliato e moralmente inaccettabile equiparare il sionismo al razzismo”. L’argomento sembra limpido: il sionismo, come il Risorgimento o altri movimenti nazionali, avrebbe rivendicato per il popolo ebraico ciò che altri popoli europei reclamavano per sé — una patria.

Eppure, in quella stessa affermazione si nasconde o viene nascosto il nodo irrisolto: la patria ebraica nacque sulle terre di un altro popolo. È dunque legittimo contrastare il sionismo? Sì, se si riconosce che ogni progetto nazionale fondato sull’esclusione di chi già abita una terra porta in sé una contraddizione morale. Il sionismo nacque come idea di liberazione, ma si realizzò come forma di colonizzazione. Alla fine dell’Ottocento Herzl immaginò una patria sicura per un popolo perseguitato. Ma la formula “una terra senza popolo per un popolo senza terra” conteneva già la negazione dell’altro che spariva nel nulla.

Storici come Ilan Pappé, Benny Morris e Tom Segev hanno mostrato come la nascita dello Stato d’Israele comportò espulsioni e una riorganizzazione del territorio in chiave etnica. Hannah Arendt e Martin Buber avevano avvertito che uno Stato fondato sull’omogeneità nazionale non poteva essere pienamente democratico.

Il sionismo portava in sé due anime: una socialista e laica, che sognava uguaglianza, e una religiosa, che vedeva nel ritorno a Sion il compimento di una promessa divina. Dopo il 1967, con l’occupazione dei territori palestinesi, la seconda ha preso il sopravvento, rendendo evidente la contraddizione originaria. Oggi il sionismo messianico — che lega la legittimità di Israele a una promessa religiosa della terra — ha un ruolo concreto nel governo. Il Religious Zionism Party, con 7 seggi alla Knesset, influenza la politica di Israele. È la prosecuzione politica di un’idea teologica: la terra come diritto sacro. Così, il progetto originario si è evoluto in un sistema di dominio territoriale. L’occupazione e le colonie non sono deviazioni, ma lo sviluppo coerente di quell’equivoco iniziale: la libertà di uno costruita sulla dissoluzione dell’altro.

Fiano idealizza il sionismo come se fosse rimasto quello dei kibbutz e dell’eguaglianza socialista. Ma quella stagione è finita. Oggi il sionismo non rappresenta più un progetto di emancipazione: è un’ideologia di Stato che giustifica l’asimmetria e la paura. Chi lo contesta — come gli studenti di Ca’ Foscari — non nega la memoria ebraica né la Shoah: rifiuta l’uso politico che se ne fa, che implica di fatto l’oppressione di un altro popolo. In questo Fiano è omissivo della complessità della situazione e del senso storico che sta emergendo nella tragedia di Gaza.

I giovani che criticano il sionismo non vanno accusati di antisemitismo, ma ascoltati come voce di una nuova coscienza critica. Chiedono che “liberazione” e “giustizia” tornino ad avere un valore universale.

Il compito dell’università non è proteggere le ideologie, ma interrogare la storia. E la storia, oggi, ci dice che un movimento nato per liberare un popolo non può continuare a farlo negando la libertà di un altro.

Dopo gli eventi di Gaza, è urgente superare ed emarginare il sionismo come ideologia politica: non per negare la memoria ebraica, ma per liberarla dall’identificazione con un progetto di dominio. Solo separando l’identità ebraica dall’ideologia sionista sarà possibile tornare a pensare la giustizia, la convivenza e la pace come valori universali — e non come privilegi di uno solo.

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