L’eredità dell’omicidio Dalla Chiesa e le cose ancora da fare
- Postato il 3 settembre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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La memoria del generale, prefetto, Carlo Alberto Dalla Chiesa, assassinato a Palermo il 3 settembre 1982 all’esito di una convergenza di interessi mai completamente chiarita e punita, può anche essere l’occasione per qualche spunto programmatico sull’antimafia di oggi: infatti la comprensione profonda del fenomeno è una delle eredità del generale. Quanto sia attuale il significato dell’assassinio Dalla Chiesa, detto per inciso, ce lo suggeriscono i mafiosi stessi: nel 1996 il collaboratore Tullio Cannella mise a verbale le parole di Pino Greco, “Scarpuzzedda”, uno dei killer di Dalla Chiesa “Quest’omicidio dalla Chiesa non ci voleva, ci consumò, ci vorranno minimo dieci anni per riprendere bene la barca, la situazione”.
Ma dieci anni dopo altro che “riprendere bene la barca”: la strage di Via D’Amelio fu destabilizzante per Cosa Nostra, oltre che per l’Italia. Per entrambe le stragi dunque si può ben parlare di un “pessimo affare” per Cosa Nostra (cit. Bianconi). Per entrambe i mafiosi stessi si chiesero: ma perché? Utile allora ricordare che Bernardo Provenzano a Vito Ciancimino nelle settimane convulse che precedettero la morte di Borsellino (durante le quali Ciancimino riceveva nella sua casa romana il capitano De Donno) diceva di un Riina “pressato” ad andare avanti in fretta e comunque. Quante affinità!
Ma concentriamoci ora sugli spunti “programmatici”.
C’è bisogno di riflettere sul narcotraffico internazionale, in particolare di cocaina. Come recentemente ha bene argomentato Loretta Napoleoni sul suo blog su questo sito. Anche perché il brutale mercato della cocaina e dei suoi derivati continua a fare morti ammazzati come ai “vecchi tempi” lì dove la catena del valore ha il suo fondamento, contribuendo a deformare politiche e relazioni internazionali (gli Usa di Trump hanno recentemente deciso, unilateralmente of course, che potranno colpire i cartelli della droga oltre confine come e quando vorranno).
C’è bisogno di occuparsi delle carceri italiane ed in particolare dell’alta sicurezza che da più parti continua ad essere indicata come un colabrodo, nella quale e dalla quale i mafiosi (non tutti stanno al 41 bis) continuerebbero a mandare avanti i loro sporchi affari, anche con il supporto di tecnologie avanzatissime (il Procuratore di Napoli, Nicola Gratteri, lo denuncia ad ogni occasione).
C’è bisogno di occuparsi delle condizioni di vita dei testimoni di giustizia, cioè di quei cittadini onesti, spesso imprenditori, che hanno deciso di rompere il silenzio, denunciando ed affidando le proprie vite allo Stato. La Repubblica ha ospitato recentemente una intervista ad un imprenditore palermitano, Giuseppe Piraino, le cui parole agghiaccianti evocano una Italia che in molti pensavano definitivamente archiviata (come altrimenti onorare Libero Grassi?).
C’è bisogno di ripartire da quel grido “Falso! Falso! Falso!” levatosi in Commissione parlamentare antimafia il 31 di Luglio, per bocca di Gian Carlo Caselli, oggi presidente onorario di Libera, intenzionato a denunciare la narrazione tossica sulla strage di Via D’Amelio, buona a far uscire dalla scena del crimine quanti hanno governato insieme alla mafia il drammatico passaggio tra la prima e la seconda Repubblica, bastonando contemporaneamente chi invece, servendo legge e Costituzione, ha cercato di opporsi ad osceni matrimoni di interesse. Con la necessità di comprendere quanto profondamente ancora oggi quei matrimoni combinati allora avvelenino la qualità della nostra democrazia (come altrimenti onorare Dalla Chiesa?).
C’è bisogno di tornare a guardare dentro la gestione dei beni confiscati alla mafia, perché non divenga una mangiatoia vergognosa e corrosiva della credibilità delle Istituzioni, ma parimenti bisogna fare ogni sforzo per salvaguardare le misure di prevenzione patrimoniali come punta di diamante del contrasto made in Italy (che ne è della vicenda denunciata inizialmente dai bravissimi Roberto Disma e Sara Cozzi di Làmia, relativa all’albergo gestito dal giovane nipote di Giovanni Brusca a Palermo?).
C’è bisogno di monitorare severamente le possibili convergenze tra politica, pubblica amministrazione, imprenditoria mafiosa e mafia imprenditrice soprattutto nel ciclo delle grandi opere a cominciare dal promesso “Ponte sullo Stretto”. Le denunce del presidente dell’Anac, Giuseppe Busia, contenute nell’ultima relazione al Parlamento, che stigmatizzavano il ricorso pericoloso agli affidamenti diretti (che riguardano oltre il 98% della spesa pubblica italiana) ed alla catena irresponsabile dei sub appalti, non devono essere seppellite dalla polvere.
C’è bisogno di indagare il rapporto culturale tra il progressivo disprezzo con il quale la destra sovranista in tutto il mondo occidentale tratta il diritto internazionale, umanitario ed il successo del “modo mafioso” di stare al Mondo (qui sta la gravità della vicenda Almasri).
Clientelismo ed “amichettismo” non sono reati, non lo è più nemmeno “l’abuso d’ufficio” che del clientelismo è da sempre l’ancella, a tutto vantaggio della sottile, pervasiva, prevalenza in ogni ambito della “forza di intimidazione dei vincoli associativi”, che tornano ad essere il principio ordinativo della società. Con buona pace del prefetto Dalla Chiesa che non voleva guardare in faccia a nessuno e che lo aveva pure detto chiaro e tondo a Giulio Andreotti. Eroismo civile? Sì, niente di meno.
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