Leopoldo Zurlo, il primattore della censura fascista al teatro

  • Postato il 1 dicembre 2025
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  • Di Agi.it
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Leopoldo Zurlo, il primattore della censura fascista al teatro

AGI - Colto, enigmatico, ironico, ambivalente, Leopoldo Zurlo visse una stagione di notorietà durante il fascismo in qualità di vertice della piramide della censura, che interpretò ed esercitò a modo suo temperando gli eccessi del regime e allentando le briglie di fronte all’arte che svicolava dai controlli. Era nato 150 anni fa, il 3 dicembre 1875, a Campobasso allora capoluogo di provincia degli Abruzzi, da agiata famiglia molisana; poteva vantare un nonno parlamentare nella prima legislatura del Regno d’Italia e uno zio sottosegretario con Giovanni Giolitti. La sua formazione universitaria non poteva che essere a Napoli, dove si laureò in giurisprudenza a 21 anni, per poi entrare per concorso a 25 anni nella Pubblica amministrazione come funzionario del Ministero dell’interno che lo porterà a essere nel 1927 commissario prefettizio di Pescara, la nuova provincia voluta da Gabriele d’Annunzio e Giacomo Acerbo nel 1926. 

Ripescato dall’anonimato quando sembrava avviato alla pensione 

La sua carriera conosce un’improvvisa impennata quando la legge 6 gennaio 1931 n. 599, “Nuove norme per la censura teatrale”, trasferisce dai singoli prefetti a un solo ufficio del Ministero dell’interno l’esercizio della revisione teatrale. Il capo della Polizia Arturo Bocchini si era ricordato di questo funzionario sempre molto ligio al dovere, colto e preparato, che prima dell’avvento del fascismo era stato segretario di Giolitti e aveva avuto un incarico nel governo di Luigi Facta. Questo accadeva quando, col ruolo di viceprefetto, navigava nell’anonimato verso la pensione. E gli venne così assegnato a 56 anni l’importante incarico di revisore unico della produzione teatrale. Su quella poltrona negli uffici di Palazzo Balestra a via Veneto rimarrà fino alla fine del 1943, travolto solo dagli eventi della grande storia susseguenti la caduta di Mussolini, il governo di transizione di Badoglio, il disastro dell’armistizio e la rinascita del fascismo a Salò. 

Leggeva 1.500 copioni l’anno e dava suggerimenti a Totò, Eduardo e Bragaglia 

Se fosse stato solo un censore zelante, Zurlo sarebbe passato pressoché inosservato, visto come propaggine della dittatura e strumento repressivo attraverso le forbici, da allontanare con l’epurazione. Invece l’intellettuale molisano interpretò il suo ruolo ben oltre le direttive calate dall’alto, e nel limite del possibile trasformò la censura in un filtro strumentale per far arrivare sulle scene il meglio e spurgare la produzione. Per di più si ritrovava al centro di un sistema a vasi comunicanti che ruotava attorno ai grandi nomi autoriali, le simpatie e le antipatie del regime, le segnalazioni e le richieste di intervento dei gerarchi, le direttive del partito e persino quelle della Chiesa. Lui si mosse con competenza e intelligenza in quel campo minato, stagliandosi dagli altri burocrati con la cimice del Pnf al bavero, mosso più dalla passione per il teatro che dall’ossequio al potere. Guardava tutto, controllava tutto e leggeva tutto. Si diceva che sotto alla sua lente passassero circa 1.500 copioni l’anno, ma a Zurlo spesso bastava un’occhiata alle prime pagine per capire di cosa si trattasse. E così drammi, commedie, operette, avanspettacolo, di produzione italiana e straniera, sfilavano davanti alle forbici del censore che non si limitavano a tagliare, ma avevano altresì un intento di valorizzazione attraverso le indicazioni a ritocchi che consentivano il rilascio del visto e la messa in scena. Dirà in seguito che si doveva dare agli autori l’impressione di godere di una certa libertà fornendo solo le dritte su quello che poteva turbare il regime o dare adito a critiche. Lui consigliava bonariamente, non cassava. Quella era l’età di Totò ed Eduardo De Filippo, di Vittorio de Sica e Anton Giulio Bragaglia e del primo Federico Fellini: le maglie erano abbastanza larghe per chi aveva qualcosa da dire, e abbastanza strette per bloccare opere manieristiche o senza il guizzo dell’arte o palesemente mediocri, con la scusa della violazione della morale cattolica e dell’estetica fascista. In qualche modo credeva di poter plasmare una drammaturgia che fosse la cifra stilistica dei tempi, agendo sui copioni e sugli autori, con l’aria dell’amico che sa sempre qual è l’indirizzo giusto da dare o l’angolo da smussare o la prospettiva da correggere. 

Quel rapporto particolare col capo della Polizia Carmine Senise 

Viveva a Roma, in una piccola casa nella quale ospitava il capo della Polizia Carmine Senise, che dalla fine del 1940 aveva preso il posto di Arturo Bocchini. Senise, napoletano classe 1883, aveva conosciuto Zurlo ai tempi dell’università. Si sussurrava che i due fossero ben più che amici, anche perché ambedue non frequentavano compagnie femminili né tanto meno si erano avventurati sulla strada del matrimonio. Questo in un Paese il cui regime aveva messo una trassa sugli scapoli e perseguiva l’omosessualità. Secondo alcuni proprio per questo motivo Mussolini non aveva mai promosso Zurlo prefetto, ma in ogni caso Senise era una pedina troppo importante del sistema. Quello che il duce non poteva immaginare era che proprio l’astuto napoletano era stato uno degli artefici della sua caduta il 25 luglio e della gestione del suo arresto. Con l’8 settembre Senise aveva lasciato la casa di Zurlo e su suggerimento del comandante dei carabinieri Angelo Cerica aveva trascorso la notte nella caserma della Legione allievi carabinieri. L’indomani si era recato al Viminale ed era stato informato che il re, i Savoia, Badoglio, lo Stato maggiore «erano partiti da Roma per ignota destinazione, che seppi poi essere Pescara». Lui e Zurlo, per non cadere nelle mani dei tedeschi, uscirono dall’abitazione di quest’ultimo alla chetichella «dal cancello di via Panisperna». Il 10 settembre Senise viene chiamato al Ministero della Guerra dal generale Sorice. «Raggiunsi con Zurlo il palazzo di via XX Settembre, fra il crepitio delle mitragliatrici e dei moschetti che l’invasore sparava contro i cittadini, e fu vero miracolo che rimanemmo illesi». Senise sarà arrestato dalle SS il 26 settembre e imprigionato prima a Dachau, quindi a Hirschegg, in Baviera, assieme all’anziano ex presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti e a Mario Badoglio, figlio del Maresciallo. Sopravviverà alla guerra e alla deportazione. Probabilmente venne risparmiato perché da lui era partito l’ambiguo ordine che il 12 settembre aveva consentito ai paracadutisti tedeschi di liberare Mussolini a Campo Imperatore senza colpo ferire; se avessero saputo del suo ruolo nella caduta del duce sarebbe stato certamente giustiziato. Quanto a Zurlo, che aveva rifiutato di aderire alla Repubblica sociale di Salò, non verrà mai convocato dalla Commissione per l’epurazione nonostante il suo ruolo di funzionario fascista, e passerà gli anni che gli restavano da vivere lontano da ogni ribalta. Nel 1952 darà alle stampe un libro dal titolo emblematico: “Memorie inutili. La censura teatrale nel Ventennio”. Morirà a Roma il 17 novembre 1959. 

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Autore
Agi.it

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