Legino, Nicolò Tobia e la carica dei 565: “Cresciuto umanamente fuori regione, l’infortunio non mi ha fermato”

  • Postato il 18 settembre 2025
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  • Di Il Vostro Giornale
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Generico settembre 2025

Savona. “Io parlo a tutti di quando sono stato fuori non tanto per un discorso calcistico, non per dire quello che ho fatto o vantarmi, ma ne faccio proprio un discorso diverso: a me è piaciuto prima di tutto interfacciarmi con un mondo nuovo, che non era quello ligure”. Sono parole mature quelle di Nicolò Tobia, l’attaccante scuola Legino che proprio in questa stagione è tornato a vestire il suo amato verdeblù.

I suoi anni fuori regione hanno cambiato la sua mentalità vivendo esperienze colme di un significato soprattutto umano. Tra Casale e Borgosesia ha imparato tanto, anche come rialzarsi da un infortunio che lo ha tenuto fuori per diverso tempo. Dopo un breve trascorso al Legnano, Nicolò è tornato a casa sua: al Ruffinengo, nel quale domenica ha ritrovato l’emozione del gol dopo 565 giorni dall’ultima volta. Ma in quella rete, gonfiata dal pallone partito dal destro del classe 2003, c’è molto più di un discorso di calcio: è il riavvolgersi di un nastro che racconta l’intero percorso.

Nicolò, facciamo un salto indietro. Partiamo dalla tua prima esperienza fuori regione: al Casale

Letteralmente un sogno che si avverava: ho avuto la possibilità di lavorare con professionisti. Quello che era Casale non era una Serie D normale: a tutti gli effetti si parlava di professionismo. Tre volte a settimana la mattina facevamo palestra, siamo andati in ritiro, abbiamo fatto esami del sangue, delle urine, avevamo diete personalizzate, cuochi che ci cucinavano in convitto. Tutto organizzato in modo non da Serie D. Infatti, come poi si è visto, l’epilogo della società è stato quello di non riuscire a sostenere quei costi. Però io lì ho visto nuovi modi di lavorare, nuove persone. Ho mantenuto tanti rapporti, ho avuto la fortuna di giocare con giocatori fortissimi ma anche con brave persone, con cui tuttora mi sento, come Mesina Antonio, l’attaccante, o Rancati. Ci sentiamo ancora di tanto in tanto per qualsiasi cosa, di campo o no. Il bello della società è stato proprio quello.

Poi il Borgosesia, una tappa importante per tanti motivi

Non basterebbero due giorni per raccontarla. Lì ho sempre detto a tutti che ho lasciato una seconda famiglia. Sono arrivato in una situazione complicata a livello calcistico: la squadra era in una classifica brutta, avevamo 11 punti. Siamo riusciti a salvarci con cinque giornate di anticipo a Tortona, facendo un girone di ritorno da media da quarto posto. Eravamo una vera famiglia, un vero gruppo. Ancora oggi abbiamo un gruppo WhatsApp di quell’anno, ci sentiamo, ci mandiamo TikTok, meme, qualche ricordo di quelle stagioni. È stato bello soprattutto per questo. A Borgosesia, nonostante fosse Serie D, c’erano principi e valori che non erano da Serie D. Quando andavi allo stadio o in paese, ti trattavano come un figlio della città. È un paese di 15-17 mila abitanti, quindi il senso di appartenenza era di tutti. Io sono arrivato a dicembre, ho fatto subito gol, poi alla ripresa dopo Natale ho segnato di nuovo: due gol in settanta minuti. Da lì, per le strade a Borgosesia, tutti mi conoscevano. Alla domenica i tifosi chiedevano che entrassi in campo, i ragazzini della società mi conoscevano. Di quegli anni potrei raccontare mille aneddoti, non solo di calcio ma soprattutto di famiglia e di rapporti umani. Ho ancora tantissimi amici lassù, ho conosciuto persone e posti che porterò sempre dentro.

Hai un aneddoto particolare da raccontare?

La settimana scorsa, quando sono stato alla festa dei cent’anni del Borgosesia, ho parlato con il Presidente, con il Direttore, con i dirigenti, con tutti i vecchietti che venivano al bar a salutarmi dopo le partite, perfino con la mia vecchia proprietaria di casa. Ho parlato con tutti. Ho parlato anche con l’addetto stampa: mi ha detto “guarda che sono passati anni, però volevo farti vedere una cosa”. Mi ha mostrato una pagina di giornale di una bambina di Borgosesia, si chiama Ginevra, che gioca lì nel settore giovanile. È bravissima calcisticamente, infatti la Juventus la segue da diversi anni. Nell’articolo c’era scritto che le avevano fatto un’intervista qualche mese fa. Io a Borgosesia ci tornavo ogni tanto, solo per salutare qualcuno o rivedere qualche amico, non più di tanto. Però leggere quell’articolo mi ha colpito. La bambina raccontava che aveva iniziato a seguire il Borgosesia nel 2022, cioè l’anno in cui ero arrivato io. Diceva che in questi anni erano passati tanti giocatori, tanti allenatori, tante vittorie. Le hanno chiesto chi fosse il suo idolo calcistico, e lei ha risposto: “Nicolò Tobia”. Ci sono bambini che rispondono Cristiano Ronaldo o altri grandi nomi, e invece questa bambina ha detto il mio nome. Questa cosa mi ha fatto venire le lacrime agli occhi: ho pianto per un quarto d’ora. Solo il pensiero di essere tornato a Borgosesia e di aver rivisto questa bambina, che già allora incontravo al bar, mi ha emozionato. A me piaceva fermarmi al bar a parlare con la gente, con i tifosi, con i dirigenti. Lei era sempre lì, mi abbracciava dopo la partita, mi diceva “bel gol che hai fatto” o “questa cosa potevi farla meglio”. Stavamo a chiacchierare mezz’ora. Quando sono salito di nuovo a Borgosesia l’altro giorno, ho chiamato per avvisare se potevo andare allo stadio. Lei c’era. Ci siamo rivisti dopo un anno e mezzo, e anche per lei è stata un’emozione. Ma soprattutto, quando ho letto quella pagina di giornale, giuro, mi sono commosso. Io non tornavo lì da un anno e mezzo, se non per salutare qualche dirigente o sentire qualche vecchio compagno. Non ero più stato al campo, al massimo un paio di volte. Però vedere queste cose ti scalda il cuore.

Quanto ti hanno dato queste esperienze?

Tantissimo. Quello che dico spesso anche ai ragazzi qui, o dove sono andato, è che non bisogna rimanere sempre nella propria zona di comfort. Ho visto ragazzi scegliere università vicine a casa o situazioni più comode. Io dico: se avete la possibilità, andate e fatelo, perché le esperienze non tornano indietro. Soprattutto da giovani bisogna non togliersi nulla. Ho sentito persone di 30-35-40 anni dirmi: “Se a vent’anni avessi fatto…”. No: a vent’anni bisogna fare, sperimentare, che sia per studio o per sport. Io ho avuto la possibilità di legarmi al calcio, ma tanti possono farlo per lo studio. È indubbio che, fino ai 25 anni, queste esperienze servono. A me hanno fatto crescere non solo calcisticamente ma come persona. Sono tornato e non sono più la stessa persona di quando ero partito. Ed è questa la cosa più importante: se torni e non è cambiato nulla, vuol dire che quando sei andato via qualcosa non andava. Andare fuori ti apre la mente, ti fa vedere le cose da altri punti di vista, che non sono giusti o sbagliati, ma diversi. Per me è stata questa la parte più bella, più utile. Ovviamente se non ti monti la testa. Ho conosciuto ragazzi che dicevano: “Quest’anno ne faccio dieci, l’anno prossimo vado in C, tra due anni faccio il professionista”. Io invece ho sempre avuto una famiglia dietro che mi ha fatto tenere i piedi per terra. Il primo anno, quando volevo andare a Casale, mi chiedevo cosa fare con l’università. La mia famiglia mi ha detto: “Vai a Casale, l’università è vicina ad Alessandria”. Ho una famiglia bellissima, con valori che oggi penso siano rari. Ringrazio ogni giorno di avere la famiglia che ho, non solo per il calcio ma per i valori umani che mi sono stati insegnati. Domani mi piacerebbe avere una famiglia come la mia, non una famiglia divisa. Quando sono andato a Borgosesia, i miei per primi mi dicevano che sarebbe stato un posto familiare e che mi avrebbe fatto stare bene mentalmente prima ancora che calcisticamente. E così è stato.

Cosa rappresenta per te questo ritorno a Legino?

Innanzitutto dico quello che non è una sconfitta. Ma quale sconfitta? A chi dice: “Sei tornato dalla D, quindi vuol dire che non eri abbastanza bravo, che ci sei stato solo perché raccomandato”. Io ho fatto un provino con sessanta ragazzi a casa, al Palli: hanno preso me e un altro. A Borgosesia mi ha voluto il direttore, ho parlato con Di Battista, abbiamo trovato l’accordo e sono rimasto un anno. Poi ho rinnovato per il secondo anno, rinunciando alla Serie C, al professionismo, perché lì stavo bene. Tornare a Legino per me deve essere una sconfitta? No. Io penso di avere vinto più di tanti altri che adesso fanno la C, la B o addirittura la A. Magari hanno fatto quindici gol in un anno e oggi giocano in categorie più alte, ma certe cose che ho vissuto io loro non le hanno mai provate.  Il comportamento di fermarmi al bar a parlare con la gente, ad esempio, è un comportamento da Legino, che mi sono sempre portato dietro. È un atteggiamento che mi ha fatto guadagnare persone, ed è questa la vittoria più grande. Perché nella vita puoi guadagnare persone o perderle: quella, secondo me, è la vittoria più importante. Ed è per questo che dico sempre ai ragazzi: andate, fate, osate, non fermatevi.

Entrando più nel dettaglio, quali sono le motivazioni della tua scelta?

La decisione è stata dovuta a più fattori. Non è vero che sono tornato perché non avevo altre scelte. Ho sentito dire di tutto: “È tornato dal papà…”. Ma la scelta è stata mia, ponderata. Come in tutte le decisioni precedenti, la mia famiglia c’entra: quando sono andato a Casale, a Borgosesia, quando ho rifiutato due proposte dalla C per restare a Borgosesia. Quest’estate avevo avuto contatti con una squadra di Serie D di Bergamo, ma la trattativa non è andata avanti per mia volontà. Nel frattempo ho iniziato il tirocinio in uno studio di Genova, il PRD, uno dei più grandi del Nord Italia. Mi sono trovato bene, ho iniziato a inserirmi anche nel mondo lavorativo. Poi c’è stato un discorso con altre squadre di Eccellenza, ma non si è concretizzato. Avevo già detto no ad altre società perché pensavo di andare altrove, quindi mi ero bruciato delle alternative. Carella in questi anni non ha mai smesso di interessarsi a me e “corteggiarmi”, dicendomi: “Hai i risultati per fare altre categorie, ma se vuoi un appoggio mentre studi, le porte qui sono sempre aperte”. Io non mi sono mai nascosto: in Liguria, per me, c’è il Legino e preferisco stare lì. Nel frattempo, dallo studio mi hanno chiesto di restare a lavorare con loro. Io tra quattro o cinque mesi mi laureerò e poi inizierò la magistrale. Quindi il connubio perfetto è stato questo: ritrovare un po’ di pace che negli ultimi anni, tra infortunio e altro, non avevo più, e ricominciare a mettere insieme i tasselli del puzzle: studio, lavoro, calcio e famiglia. La mia famiglia in questi anni ha fatto sacrifici per starmi dietro, e io viceversa. È stato il passaggio giusto, ragionato su più mesi. Se non ci fosse stato il problema universitario magari avrei pensato ad altro, se non ci fosse stata l’occasione lavorativa avrei valutato altro ancora. Ma alla fine questa è stata la scelta migliore. Per me il Legino è sempre stato una seconda casa, un’oasi felice, un posto dove sentirmi tranquillo. E in questo momento della mia vita la tranquillità era ciò che mi serviva. Anche a livello calcistico ho trovato un gruppo coeso, con tanti giovani di qualità e giocatori esperti che possono aiutarli a crescere.

Giocherai insieme a tuo fratello Alessio, che negli ultimi anni si è ritagliato il suo ruolo in Prima Squadra. Che sensazioni hai?

È una cosa bella. Lui ormai è un giocatore importante, ha fatto 28 presenze su 30 lo scorso anno. Tecnicamente, secondo me, è un gradino sopra agli altri. Non lo dico perché è mio fratello: lo dico anche in spogliatoio. È un giocatore che cerco spesso in campo perché so che può darmi la giocata decisiva. Ovviamente deve ancora imparare malizie e gestioni che vengono con l’età. Alla sua età non ero più forte di lui, avevo semplicemente punti di forza e debolezza diversi. Quest’anno abbiamo tanti giovani di qualità: Gorrino, Campus, Monte, Angeli, Pescio, Di Donato, Mate, Santellino in porta. È un parco giovani molto preparato, unito ad uno spogliatoio con giocatori esperti come Damonte, Piana, Romeo, Semperboni, Ferrara. Questo mix può davvero far crescere i ragazzi.

Che Legino hai ritrovato? 

Il Legino è rimasto sempre uguale negli anni, nonostante mille cambiamenti intorno. È rimasto una famiglia, e chiunque ci passi – sei mesi, un anno, dieci anni – porta il Legino nel cuore. Io sono contento di aver ritrovato lo stesso Legino, con il suo DNA intatto. Per me venire qui vuol dire venire per divertirmi e passare bei momenti, non per rovinarmi la giornata. Alla fine quello che resta sono i momenti belli, non i problemi. A livello di squadra, ho trovato un gruppo che, nonostante arrivi da lavoro e stanchezza, mantiene sempre il sorriso. Non c’è pesantezza. È un posto dove puoi sbagliare, imparare e crescere, e questa è sempre stata la filosofia del Legino. Se non ci fosse stata quella filosofia, io stesso non avrei fatto la carriera che ho fatto. Girgenti ebbe il coraggio di farmi esordire a 15 anni. Mio padre non mi avrebbe mai fatto esordire solo perché ero suo figlio. Invece quando è arrivato avevo  già un anno e mezzo di esperienza alle spalle.

Facciamo un ultimo tuffo nel passato: al tuo infortunio. Come hai trascorso quel periodo?

È stato il momento più buio, e penso lo sia stato per tutti i giocatori che subiscono un’infortunio importante che lo raccontano come un vero punto di svolta. Nel mio caso è stato un momento che mi ha fatto riflettere su tantissime cose, molteplici motivazioni. Adesso, con maggiore tranquillità, guardo all’anno scorso, in cui comunque ho fatto bene: c’erano due società di Serie C interessate a me, quindi l’anno prossimo sicuramente troverò squadra. Borgosesia è stato con me: è stato un mondo strepitoso, ancor più per quanto dicevo prima. Negli ultimi tre mesi dopo l’infortunio non sono rientrato in campo; mi allenavo, ma stavo “e non stavo”: ero a disposizione ma non avevo la condizione per essere convocato. Eppure Borgosesia mi ha pagato gli ultimi tre stipendi — cosa che altrove, se manchi un allenamento, non sempre succede.

Conta molto l’aspetto umano all’interno del tuo percorso, giusto?

Questo è il fulcro di tutto. In questi anni e mezzo ho perso persone, nel senso che alcune relazioni si sono perse lungo il percorso, mentre ne sono nate altre: ho scoperto persone che non avrei mai pensato mi sarebbero state così vicine. Tante persone sono rimaste con me dall’inizio alla fine; altre se ne sono andate lungo la strada. Penso che l’infortunio e tutto il percorso mi abbiano aperto gli occhi su cose che calcisticamente non si considerano nemmeno all’inizio: il primo pensiero era “tanto l’anno prossimo torno a posto, mi rimetto, trovo squadra”. Poi le priorità sono cambiate: se trovi squadra ma hai accanto persone che non vogliono il tuo bene, forse è peggio trovare squadra e avere certe persone vicino, rispetto al non trovarla o trovarne altre ma avere rapporti umani veri che resistono nel tempo. Se ripenso all’infortunio, fino a un anno fa lo vedevo solo come un momento buio. Oggi, invece, oltre al dolore e alla paura sul piano calcistico, penso alle persone che mi hanno scritto, agli amici di Borgosesia che sono venuti a trovarmi a casa quando stavo male, agli amici qui in Liguria: erano tanti quando sono partito, ora sono meno ma ci sono gli amici veri, quelli che considero più vicini. È stato un filtro, un setaccio: l’evento ha dato valore a ciò che è rimasto.

14 settembre 2025, torni a segnare un gol in partita. Hai riavvolto il nastro per un istante?

Segnare di nuovo, riassaporare quel gusto di domenica che mancava da tempo, non è stato il traguardo finale ma uno dei tanti gradini del percorso. Non è il “gradino di arrivo”: è uno dei gradini, una tappa naturale, come una qualunque partita o un rigore. Negli ultimi 565 giorni la mia vita calcistica si è fermata, ma la mia vita personale no: anzi, sotto certi aspetti è migliorata; sotto altri forse è peggiorata, ma nemmeno “peggiorata” nel senso assoluto — a volte peggiorare in alcuni aspetti ti serve per migliorare in altri. Il grande libro della vita non so a che pagina sia: posso leggere le pagine passate e ricordarle, ma non posso ancora sapere cosa c’è scritto nelle pagine future. Quindi leggiamo e vediamo.

Autore
Il Vostro Giornale

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