Le lettere del preside ai genitori, quelle che lui scriveva alle ragazze, l’ossessione per l’oro: Stefano Massini racconta Donald Trump a teatro
- Postato il 16 ottobre 2025
- Cultura
- Di Il Fatto Quotidiano
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“Lo sai perché l’oro è oro? Perché in chimica non reagisce, resta sempre lui, non cambia mai”. Donald Trump ha da sempre un’ossessione con l’oro, basta guardare le targhe dei suoi grattacieli e lo studio ovale, tappezzato com’è da cornici, statuine e amuleti dorati. Stefano Massini, nella sua opera teatrale Donald in debutto al Piccolo Teatro grassi di Milano, parte da questa metafora per descrivere una certa ineluttabilità che c’è nella figura di Trump. Proprio come l’oro, The Donald è rimasto uguale a se stesso, sin da quel lontano 14 giugno del 1946.
Si parte con l’album di famiglia e il passato difficile dei coniugi Trump. La mamma Mary Ann MacLoad emigrò a New York a 19 anni dalla Scozia: “Ho fatto per anni la lavapiatti, qua a Long Island agli scozzesi gli sputano dietro”. È proprio una delle cose che la accomunava a Frederick Christ Drumpf, sedicente immigrato svedese incontrato una sera in un pub. “Non sono svedese, vengo dalla Renania ma agli svedesi non sputano dietro, ai tedeschi sì, peggio che agli irlandesi“. La chimica tra i due nacque in quel frangente, si sposarono e diedero al mondo 4 bambini. Serviva però un cognome diverso, un misto tra svedese e americano. Addio Drumpf, “da ora saremo i Trump”.
Il ‘bambino d’oro’, l’ultimo di quattro, crebbe molto in fretta e si affermò subito come un capetto del quartiere. Ciò che sottolinea Massini è che, per capire la psicologia di Trump, si deve passare al setaccio il background culturale di una famiglia che ha origini umilissime e che ha nel suo DNA una prorompente voglia di rivalsa sociale. In casa Trump, una villetta del Queens, già dai 6 anni arrivavano lettere per la sua condotta. Massini racconta di una truffa praticata da un Donald seienne e lo fa usando le parole del preside della Kew-Forest School. “Vostro figlio sta cercando di convincere i suoi compagni che una banconota da 10 dollari equivale a una da un dollaro. E che è disposto a offrirne due da un dollaro in cambio di quella da 10, solo perché gli piace di più il volto che c’è sull’altra. Li sta truffando di 8 dollari, ma sono convinto che lo rimetteremo in riga e ne faremo un’ottima risorsa per questo Paese”. Qualche anno dopò, arrivò in casa Trump una missiva ben più severa: “Il vostro biondino quartogenito assieme a questi altri mocciosi bastardi, dopo una lezione sul tema della disobbedienza civile, sosteneva che io, in quanto preside, sarei il tiranno e che nessuno mi ha votato e che non sono stato eletto e che devo essere abbattuto… Chiederò di iscriverlo alla più feroce accademia militare”. Scoprire l’attitude trumpiana a 13 anni compiuti era forse già troppo tardi per poterla arginare.
Le lettere tornano in scena, non più quelle del preside ma quelle che Donald Trump scriveva alle ragazze: “Sei stata scelta dal Golden Boy per una serata in sua compagnia, seguirà convocazione“. Potremmo commentare questa frase in diversi modi, Massini parla di “via diretta”, quella scelta da Trump e che – a oggi – gli ha fatto ottenere molto di quello che voleva. Dalla fascia di capitano della squadra di baseball, fino alle redini dell’Elizabeth Trump & Son, l’azienda di famiglia che lui riteneva vetusta, poco ambiziosa. Quando il padre lo sfidò a piazzare 1200 trilocali nel fatiscente quartiere di Swifton Village di Cincinnati (Ohio), la via diretta lo portò a cancellare dal suo vocabolario la parola trilocale e a visualizzare non più case ma quartieri. Nella periferia più malfamata degli Stati Uniti, Trump intravide un potenziale inesplorato: quello di costruire un quartiere di lusso, il New Swifton Village.
Da quella scommessa vinta, Donald trasformò l’azienda in un colosso dell’edilizia, la Trump Organization ma il tarlo del Golden Man era quello di prendersi New York. Qui Massini introduce la figura di Roy Cohn, l’avvocato più potente di Manhattan, un “puledro di razza, elegantissimo e spietatissimo”. Trump deve convincere Cohn a diventare suo socio e a difenderlo dall’accusa di razzismo, dato che tra gli acquirenti delle case del New Swifton Village l’uomo d’oro aveva platealmente escluso i neri, bollati come “Coloured”. Diventeranno soci. E da lì in poi, Trump inizierà a creare il suo impero, tra casinò, hotel, campi da golf e grattacieli, tra tutti il suo, il più alto, 202 metri, la Trump Tower.
Ma il passo falso è quasi sempre dietro l’angolo. Gli investimenti folli, la morte misteriosa di tutti i suoi soci, tra cui lo stesso Cohn, e i debiti portano presto la Trump Organization verso un’inevitabile tracollo finanziario. A quel punto Massini fa abilmente scendere Trump dall’ultimo piano della sua torre, in un monologo finale che lo ritrae completamente solo. “La solitudine è un talento riservato a pochissimi – se la racconta davanti allo specchio, l’uomo d’oro – plasmati per bastare a se stessi, come me. In cima alla piramide si è sempre da soli”. Ora che l’oro, quello vero, non c’era più, bisognava incarnarlo. E allora “Golden Man non ha più bisogno dell’oro, Golden Man è lui stesso l’oro, il solo che in chimica non reagisce“. Donald capisce che è arrivato il momento di scendere dalla piramide.
Massini non tocca la carriera politica di Trump, permette però agli spettatori di assaggiarla, di odorarla. L’uomo sull’orlo del fallimento rimette i piedi nel letame e le mani nel formicaio. Il dominio non stava più in alto, “ora sta là sotto e io scenderò sotto zero, 200 e passa metri sotto i piedi di Giove perché è lì che il dio Vulcano forgiava le sue armi e da sotto comandava l’Olimpo intero”.
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