Le culle termiche vanno mappate e affidate solo a strutture pubbliche e laiche
- Postato il 8 marzo 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Proseguendo nella mia lotta personale e politica contro chi crede che l’otto marzo sia una festa, scelgo questa giornata per affrontare un argomento nient’affatto allegro e gioioso, quello delle culle termiche, entrate nel dibattito sulla genitorialità accompagnate da un mix di giudizi e pregiudizi che – stranamente – investono prima di tutto le donne. Si tratta di dispositivi concepiti per mantenere il neonato al sicuro, permettendo a genitori in difficoltà di affidarlo alle cure di chi gestisce la culla. Già qui è frequente l’erronea dicitura che parla di “abbandono”: le strutture che accolgono i neonati sono pensate per fargli ricevere immediatamente cure mediche e supporto; abbandono è gettare il neonato in un cassonetto o lasciarlo solo in casa per giorni, gesti tragici che ci chiamano a riflettere su salute mentale, solitudine, welfare.
Tra gli obiettivi di una culla termica dovrebbe esserci anche quello di proteggere la privacy di chi ha scelto di non tenere con sé il neonato, quali che siano i motivi. Vogliamo ricordare il video-appello di Ezio Greggio per la madre di Enea, affidato alla culla della Mangiagalli di Milano? Riusciamo a fare una riflessione anche sulle lettere e i bigliettini infilati nella copertina o tra le lenzuola, spesso pubblicati dalla stampa con foto e grafia chiaramente leggibile, con tanto di città e locazione della culla?
Il problema della garanzia di anonimato si fa ancor più presente se le culle termiche non sono collocate presso presidi sanitari pubblici o ospedali, ma gestite da associazioni, parrocchie, conventi i cui frequentatori possono lasciarsi andare a interviste, testimonianze e chiacchiere da bar sull’ora in cui è stato depositato il neonato, su come era vestita la persona o il colore della pelle del bambino. Chi si fa garante della privacy del genitore, allora? Suor Maria Claretta?
Sul fronte laicità, altrettanto preoccupante dovrebbe essere la gestione delle culle da parte dei movimenti anti-abortisti: la mappatura stessa delle culle non è fornita dal Ministero della Salute. È opera del sito culleperlavita.it, parte di una rete di Cav (centri di aiuto alla vita) che riporta la presenza in Italia di circa 62 culle termiche. Risultano scoperte Trentino Alto Adige, Sardegna, Molise e Friuli-Venezia Giulia. Le culle, però, non sono tutte uguali, le istruzioni per l’utilizzo variano a seconda della location, poiché non esiste un protocollo unico che ne regolamenti l’utilizzo a livello nazionale. Invece di incaricarsi di una gestione statale o territoriale delle culle termiche, molte Regioni sembrano preferire la soluzione dei finanziamenti: è il caso del Piemonte, dove con la scusa dell’”aiuto alla vita” le associazioni anti-scelta hanno ricevuto migliaia di euro per finanziare sulla carta l’ascolto e il sostegno alle donne, nella pratica tutte le misure possibili per impedire loro di accedere all’Ivg.
La rete dei Cav è gestita dal Movimento per la vita, la cui presidente Marina Casini in un’intervista di febbraio 2025 a Famiglia Cristiana sulla legge 194 ha dichiarato che “depenalizzare non significa trasformare l’aborto da delitto a diritto”. Pensare che l’aborto non sia un diritto porta a una conclusione errata e cioè che le culle per la vita siano una valida alternativa all’Ivg, una misura contro l’aborto che potrebbe sradicarlo in toto, eppure così non è. L’accesso alla contraccezione e l’interruzione volontaria di gravidanza sono diritti riproduttivi fondamentali che devono sempre essere garantiti e non possono essere sostituiti dalle culle termiche. Chi non vuole partorire un figlio deve poter scegliere di non farlo potendo accedere a procedure regolamentate, efficienti, radicate sui territori; lo stesso spetta a chi vuole partorire e poi affidare il neonato alle cure di qualcun altro tramite il parto in anonimato o le culle, senza assistere sui media e sui social all’accusa di averlo abbandonato, senza il rischio di essere scoperta ed esposta alla gogna pubblica e senza la paura di un mancato funzionamento dei dispositivi di pronto intervento, come accaduto a Bari lo scorso gennaio con la culla della chiesa di San Giovanni Battista.
Chi sceglie di partorire in anonimato in ospedale è protetto dal DPR 396/2000 (art. 30 commi 1 e 2) e non mi risulta che a ogni madre che decide di non essere nominata sull’atto di nascita – circa trecento all’anno secondo la Società italiana di neonatologia – corrisponda una serie di articoli, inchieste e opinionisti nei talk show. Chi affida un neonato alle culle termiche, al contrario, ha partorito in casa o altrove. Dove? In quali condizioni? Con quali supporti? Ha tenuto nascosta la propria gravidanza? Per paura? A causa di un contesto violento? O forse non è riuscita ad accedere all’interruzione volontaria di gravidanza? Tutti questi scenari rappresentano un fallimento della società e delle strutture statali su tutti i livelli, non si è stati capaci di intercettare una persona in difficoltà; al contrario, però, queste casistiche sembrano incentivare le lodi alle culle “per la vita”: “avete visto che funzionano? Il bambino è salvo!” …sì, ma tutto il resto quand’è che comincia a funzionare?
A provare ad aggiustare il tiro ha pensato la deputata M5S Gilda Sportiello, con una proposta di legge redatta insieme alla psicoterapeuta Federica Di Martino della piattaforma “IVG, sto benissimo”, facendo emergere la necessità di mappare e regolamentare il sistema delle culle termiche, nonché di affidarle esclusivamente a strutture pubbliche e laiche. Il governo promette un impegno concreto, ma la sottosegretaria Bergamotto che ha risposto in aula all’interpellanza di Sportiello a nome del Ministero della Salute ha affermato, tra le altre cose, che “purtroppo non tutte le donne riescono ad accogliere appieno la loro maternità”. Dove sono i padri in questo scenario? Perché ad avere su di sé la pressione sociale del fare figli (e tenerseli) sono solo le donne? Se lo chiedeva il femminismo degli anni ’70… e siamo ancora qua.
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