L’attivista pro-Palestina (e con green card) Mahmoud Khalil arrestato a New York senza accuse: Trump lo voleva deportare
- Postato il 11 marzo 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Un giudice federale ha bloccato la decisione dell’amministrazione Trump di deportare l’attivista filo-palestinese Mahmoud Khalil, arrestato sabato nel suo appartamento di New York dagli agenti dell’Immigration and Customs Enforcement (ICE). Dopo che l’avvocato di Khalil ha contestato l’arresto, definendolo “detenzione ingiusta”, il giudice Jesse Furman ha fissato un’udienza in tribunale per il prossimo 12 marzo. Khalil si trova in carcere in Louisiana. Il suo arresto ha provocato immediate manifestazioni e proteste nell’area di Columbia University. I gruppi per i diritti denunciano l’episodio e parlano di una ormai chiara strategia di attacco al Primo Emendamento e al free speech da parte dell’amministrazione. Lunedì sera Donald Trump ha affermato che il caso di Khalil è il primo di “di molti a venire”.
Khalil, 30 anni, è nato in Siria da genitori palestinesi. Ha frequentato la Lebanese American University di Beirut, si è diplomato in computer science e quindi ha lavorato per un periodo all’ambasciata britannica della capitale libanese. Entrato negli Stati Uniti per motivi di studio nel 2022, ha conseguito lo scorso dicembre un master presso la School of International and Public Affairs di Columbia University. Ha la green card, quindi il permesso di residenza permanente negli Stati Uniti. Vive in un appartamento di proprietà di Columbia insieme alla moglie, che è cittadina americana e incinta di otto mesi. Khalil è stato uno dei volti più visibili nella protesta contro la guerra israeliana a Gaza che ha travolto Columbia e centinaia di college e università la scorsa primavera. La settimana scorsa ha dichiarato ad Associated Press di essere stato “solo il portavoce dei manifestanti”. “Dicono che sia stato il leader di CUAD (Columbia University Apartheid Divest), ma ciò è molto lontano dalla realtà”, ha spiegato. Il suo ruolo pubblico ha però attirato l’attenzione di media e avversari. Attivisti filoisraeliani hanno chiesto la sua deportazione e il mese scorso un nuovo organo disciplinare istituito da Columbia University gli ha inviato una lettera accusandolo di aver definito “genocida” una dirigente di Columbia.
È emerso che venerdì sera gli agenti dell’ICE hanno bussato alla porta di un’altra studentessa di Columbia, nel tentativo di arrestarla. La ragazza non ha però aperto, come suo diritto, e gli agenti se ne sono andati. Khalil ha invece lasciato entrare gli agenti, che lo hanno subito prelevato e portato in un centro di detenzione della Louisiana centrale. Non è accusato di alcun reato. Trump ha però più volte sostenuto che gli studenti stranieri che hanno manifestato contro Israele hanno perso il loro diritto a rimanere negli Stati Uniti. Le proteste, a suo dire, avrebbero sostenuto Hamas, che gli Stati Uniti designano come organizzazione terroristica. Khalil e altri leader studenteschi di Columbia hanno più volte respinto le accuse di antisemitismo e affermano di far parte di un più ampio movimento contro la guerra che include anche studenti e gruppi ebraici. Nei campus si sono però ascoltate, da parte di singoli, espressioni di sostegno per Hamas e Hezbollah, e su questo si basano le richieste dell’amministrazione di deportazione immediata per gli attivisti non americani. “Revocheremo i visti/le green card dei sostenitori di Hamas in America, in modo possano essere deportati”, ha sostenuto il segretario di Stato Marco Rubio.
Per far partire un ordine di deportazione, il governo deve comunque dimostrare che la persona si è resa responsabile di reati gravi. Niente di tutto questo avviene nel caso di Mahmoud Khalil, che a detta delle stesse autorità è stato arrestato solo e unicamente per aver partecipato a dimostrazioni contro la guerra a Gaza. Nella loro denuncia, gli avvocati di Khalil accusano quindi il governo degli Stati Uniti di rappresaglia nei suoi confronti per la sua “difesa, costituzionalmente protetta, dei diritti umani palestinesi”. In attesa dell’udienza di domani, mercoledì, Trump non sembra però fare passi indietro. In un post su Truth Social, il presidente ha scritto: “Sappiamo che ci sono diversi studenti a Columbia e in altre università in tutto il Paese che hanno preso parte ad attività pro-terrorismo, antisemite e antiamericane. Troveremo, arresteremo e deporteremo questi simpatizzanti terroristi, per non farli mai più tornare”. La sua amministrazione ha fatto partire un giro di vite legato proprio a Gaza. Lunedì il Dipartimento all’Istruzione ha avvisato circa 60 college, tra cui Harvard e Cornell, che potrebbero perdere denaro federale se non rispetteranno le leggi contro l’antisemitismo e non garantiranno “accesso ininterrotto” alle strutture del campus. Verranno quindi bloccati i fondi, nel caso le autorità universitarie dovessero permettere manifestazioni e occupazioni. L’amministrazione Trump ha già ritirato 400 milioni di dollari a Columbia, accusandola di aver lasciato libertà di espressione all’antisemitismo.
Dopo l’arresto di Khalil, migliaia di studenti e professori di Columbia si sono riuniti in segno di protesta. Action Network, un’organizzazione non profit, ha raccolto oltre 900mila firme su una petizione che ne chiede il rilascio. “Questo attacco razzista serve a incutere paura nei militanti pro-Palestina”, afferma la petizione. Un gruppo di attivisti, People’s Forum, ha parlato su X di “rapimento” di Mahmoud Khalil, scrivendo: “Giù le mani dai nostri studenti! Fuori l’ICE dai nostri campus!”. Preoccupazione è stata espressa da molti gruppi per i diritti civili, come l’American Civil Liberties Union, che parlano di attacco al Primo Emendamento e al diritto di espressione. Gli episodi di repressione del dissenso sono ormai sempre più numerosi. In queste ore è emerso un altro caso. Ed Martin, nominato da Trump procuratore ad interim per il distretto di Washington DC, ha inviato una lettera al preside del Georgetown University Law Center, facoltà di giurisprudenza gestita dai gesuiti, scrivendo: “Mi è stato riferito in modo attendibile che la Georgetown Law School continua a insegnare e promuovere il DEI. Ciò è inaccettabile”. Il DEI sono i programmi di “diversity, equity and inclusion” che l’amministrazione Trump ha deciso di abolire da organi e istituzioni pubbliche. Nella lettera, Martin chiede al preside della facoltà se è pronto a “rimuovere rapidamente quei programmi di insegnamento” che si basano sui principi di inclusione – o che prevedano criteri di selezione razziali o di genere. Nel caso Georgetown si rifiutasse di aderire alla richiesta, Martin afferma che gli studenti del Law Center non verranno presi in considerazione per impieghi nell’amministrazione della giustizia. Non era mai successo che un procuratore federale nominato dal presidente dettasse i curricula di un’istituzione universitaria cattolica privata.
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