La truffa linguistica dietro a chi accusa di antisemitismo
- Postato il 2 settembre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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A proposito dell’oltraggioso epiteto “antisemita”, riservato a chiunque osi avanzare riserve sulla politica colonialista virata a genocidio da parte dello Stato d’Israele, andrebbe necessariamente definito con più chiarezza che cosa significhi e a chi si riferisca. Stando alla narrazione favolistica dell’Antico Testamento (un testo che secondo lo storico Arnold Toynbee risalirebbe al tempo di Ciro II, fondatore dell’impero persiano, che concesse agli Ebrei deportati a Babilonia di ritornare in Giudea nel 539 a. C.), “semita” denomina la genealogia di uno dei tre figli di Noè – Sem – da cui discenderebbero Abramo e i gruppi etnolinguistici che popolarono il vicino e medio Oriente. Dunque – oltre agli Ebrei – Arabi, Fenici e le religioni da loro professate: Ebraismo, Cristianesimo e Islamismo.
Da ciò risulta evidente che, essendo i palestinesi appartenenti a tale gruppo, in questo momento i veri “antisemiti” sono i loro affamatori/massacratori con la Stella di Davide. Ossia governo israeliano, coloni armati e IDF (Israel Defence Forces): l’esercito impegnato nella pulizia etnica della striscia di Gaza e in Cisgiordania; con particolare menzione dei suoi infallibili cecchini, preposti a quel tiro al bersaglio rappresentato da inermi, in particolare le teste dei loro bambini. Eppure l’ignominiosa qualifica trova immediata collocazione nell’arsenale bellico di cui sono dotati gli assalitori. Nel caso, strumento d’attacco allestito da tempo – combinando armi letali quali minacce e vittimismo – come riferiva l’orientalista americano d’origine palestinese Edward W. Said. Quando una narrazione, che proseguiva sottotraccia fin dalla fondazione dello Stato d’Israele, diventò campagna strutturata di manipolazione dell’opinione pubblica occidentale grazie al push coordinato e congiunto del primo ministro di Tel Aviv generale Ariel Sharon e del ministro “banderuola” Shimon Peres.
Il primo accreditando la tesi (vittimistica) di un Israele in lotta per sopravvivere al terrorismo palestinese. Quando – scriveva Said nel 2002 – «da mezzo secolo i palestinesi sono un popolo diseredato. I profughi sono milioni, e la maggior parte di tutti gli altri cittadini vivono da trentacinque anni sotto un’occupazione militare, alla mercé di coloni armati che rubano sistematicamente la loro terra e di un esercito che li ha uccisi a migliaia». L’altro partner governativo – Peres, sempre secondo Said “il più grande ipocrita della politica mondiale” – promuovendo a tutti i livelli, dalle rappresentanze diplomatiche all’estero agli ambienti universitari israeliani e statunitensi, la tesi terroristica che i filopalestinesi sono antisemiti di cui va messa in discussione credibilità e libertà di espressione.
Ossia la minaccia che si combinava con il vittimismo, secondo le modalità che la destra americana aveva approfondito già da tempo in materia di “killeraggio a mezzo parole”. L’applicazione delle neuroscienze e delle scienze cognitive per il condizionamento di massa avendo appurato che i processi mentali seguono precisi schemi; dunque, si possono influenzare modificando il senso comune attraverso specifici atti linguistici. Tecniche messe all’opera in Italia prima da Berlusconi, con l’uso distorto del termine “giustizialismo” (nome del movimento peronista argentino anni 50 virato a simbolo dell’uso criminogeno delle indagini giudiziarie), poi dal politicamente corretto mainstream con “populismo” (la tradizione critica del tradimento dell’élites virata a sinonimo di demagogia).
Appunto, truffe linguistiche, spesso con effetti mortali (di certo per la verità).
Ciò detto resta da accennare a due questioni: cosa è successo a Gerusalemme per ridursi alla vergogna di un premier come Netanyahu; perché l’Occidente si è accodato alla sua politica genocida al punto di giustificarla (e il cancelliere tedesco Friedrich Mertz se ne compiace come “lavoro sporco per conto nostro”).
Nel primo caso si potrebbe dire che quando a un agnello spuntano le zanne si è già trasformato in lupo. E il lupo trasforma in rendita politica l’Olocausto, sostenuto da un’intera comunità internazionale perché considera Israele, armata sino ai denti e militarizzata, una polizza sul futuro: l’ultima ridotta nel caso incombessero nuove minacce tipo nazi. Nel frattempo assistiamo a un ritorno a forme di integralismo nelle comunità con la kippah: tipo il mito del “popolo eletto” che tende a stingere in quello della “razza superiore”, che in passato si è rivelato un tragico boomerang. Tempo fa ho rotto i rapporti col presidente del circolo culturale genovese Primo Levi, il quale sosteneva che tutta la cultura del Novecento fosse ebraica, rispondendogli: “Non sapevo che Keynes fosse un tuo correligionario”.
Intanto l’ebraismo internazionale di fascia alta è ormai parte dell’establishment e – quindi – viene considerato un naturale alleato nell’altra pulizia etnica in corso: quella dei ricchi nei confronti dei poveracci. Se vogliamo un abbraccio strumentale. Come quello – baci e strizzatine – subìto senza immediata ripulsa dall’icona della Shoah Liliana Segre, da parte dell’orrido Ignazio Benito La Russa. Secondo Hans Magnus Enzensberger: “dove il conto in banca è a posto l’odio per lo straniero svanisce”.
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