La strage invisibile di Bargi, un anno dopo solo silenzio e dubbi: “Diteci perché Alessandro e gli altri sono morti”

  • Postato il 9 aprile 2025
  • Cronaca
  • Di Il Fatto Quotidiano
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Alessandro D’Andrea aveva 37 anni, era un tecnico specializzato nella programmazione di hardware delle turbine idrauliche. Un lavoro duro, ma soddisfacente. È morto un anno fa, insieme ad altri sei colleghi, mentre si trovava tra il piano -8 e -9 della centrale idroelettrica Enel Green Power di Bargi, una frazione di Camugnano, comune in provincia di Bologna, poco meno di duemila abitanti, sulle sponde del lago di Suviana. Era il 9 aprile 2024: neanche due mesi dopo la strage sul cantiere Esselunga di Firenze, ventisette giorni prima delle cinque vittime soffocate nelle fogne di Casteldaccia, nel Palermitano.

L’ultimo messaggio
Era impegnato nel collaudo del Gruppo 2 della centrale. “Prove sul centrifugo meccanico”, a raccontarla in maniera tecnica. Alle 14 aveva inviato un messaggio alla sua compagna: “Abbiamo finito, facciamo gli ultimi test e vengo via”. Quindi insieme ai colleghi si era calato nuovamente nel ventre dell’impianto, un cono capovolto che scende nelle viscere dell’Appenino emiliano ed era tornato al lavoro sulla turbina posizionata a 40 metri sotto il livello dell’acqua. Si conoscevano tutti, pur venendo da ditte diverse, perché gli operai specializzati sono un microcosmo fatto di pochi lavoratori esperti.

Le sette vittime
Mezz’ora dopo quell’ultima comunicazione su WhatsApp con la sua fidanzata, Sara Bianco, una relazione lunga una vita, iniziata quando lui aveva compiuto 21 anni da qualche giorno e lei ne avrebbe festeggiati venti qualche mese più avanti, ecco l’istante dell’incidente che interromperà la sua esistenza e quella di Paolo Casiraghi, Vincenzo Franchina, Vincenzo Garzillo, Mario Pisani, Adriano Scandellari e Pavel Petronel Tanase. Un’anomalia meccanica mentre la turbina veniva testata sotto sforzo fece crollare tre piani della centrale scatenando un inferno di fuoco e acqua al quale Alessandro e le altre sei vittime non sopravvivranno.

“Alessandro è disperso”
“Era un pomeriggio abbastanza caotico. Ho letto il messaggio e mi sono detta ‘Ok’, ma non ho neanche avuto modo di rispondergli. Ho finito di lavorare alle 19.30, l’ho chiamato ma il cellulare non squillava. Quando lui era dentro la centrale, non c’era campo e quindi mi sono detta: ‘Cavolo, magari c’era ancora qualche valore che non era perfetto e si sono dovuti trattenere’. Poco dopo sono stata contattata da uno dei capi della sua ditta, la Voith Hydro. Mi ha detto che c’era stato un incidente e che Alessandro era disperso”, ricorda Sara Bianco.

L’allarme
La sorella di Alessandro, Federica D’Andrea, poliziotta, era a casa con il suo compagno: “Sono uscita dalla doccia e ho trovato tante chiamate da parte di mamma, babbo e di mia sorella Nicoletta. Papà mi disse: ‘Non sappiamo cosa sia accaduto di preciso, ma è successo qualcosa di grave dove lavorava Alessandro. Non lo stanno trovando. Non sappiamo nulla di più’. Accesi la televisione e tutti i notiziari parlavano di un’esplosione. Iniziammo a chiamare gli ospedali di Bologna e dei dintorni dando il nome di mio fratello per cercare di capire se fosse ricoverato lì. Invece nulla”. A quel punto, un tentativo estremo: “Provai a fare un colpo di telefono ad alcuni colleghi, amici, della Questura di Bologna, ma anche loro non avevano un’idea precisa di cosa fosse accaduto. Era un gran caos”.

Il testimone: “Fiammate in tutto il locale”
Il corpo di Alessandro sarà ritrovato solo due giorni dopo, l’11 aprile. Tra il segnale di blocco della turbina e l’esplosione erano trascorsi invece appena 6,2 secondi. “Si svilupparono fiammate in tutto il locale, a focolai sparsi che si accendevano e si spegnevano”, racconterà, dopo due settimane di terapia intensiva, Stefano Bellabona, uno dei sei superstiti, scampato alla morte ma segnato da ustioni di secondo e terzo grado che gli hanno mangiato la carne della faccia, delle mani, della schiena e dei glutei. Era a due metri da D’Andrea, in quegli istanti ha appena fatto in tempo a chiedergli cosa stesse accadendo prima che i lampi di luce a decine di metri sotto terra inghiottissero sette vite, tante quante ne bruciò l’incidente alla Thyssenkrupp di Torino il 6 dicembre 2007.

L’indagine in stand by
Di questa strage sul lavoro, a un anno di distanza, si sa ancora poco o nulla perché l’acqua che invase la centrale ne seppellisce ancora cinque piani. Così l’inchiesta della procura di Bologna, coordinata dai pubblici ministeri Flavio Lazzarini e Michela Guidi, procede a rilento. I periti non hanno ancora potuto effettuare un accesso ai luoghi ma, sulla base delle “scatole nere” recuperate, hanno indicato sei possibili cause. Nulla di definitivo, nessun punto fermo. Di certo ci sono solo le ipotesi di reato, ancora a carico di ignoti: disastro colposo, omicidio colposo sul lavoro plurimo e lesioni colpose sul lavoro.

Le domande senza risposta
“Vorremmo capire cosa è successo in quei secondi lì sotto. Cosa hanno vissuto, se si sono resi conto di quanto stava accadendo – dice Federica D’Andrea – Ti fai tante domande: era cosciente? Ha avuto paura? Ha sofferto? Ha cercato di scappare? Su questo vorremmo delle risposte, al di là delle responsabilità penali. Poi, per l’amor di Dio, aspettiamo anche di capire se qualcosa poteva essere fatto diversamente o se è stato un incidente non prevedibile. Magari, comprendendo che cosa è successo, si potranno implementare le misure di sicurezza”. Un campo, quello della tutela dei lavoratori, nel quale “si può migliorare, nel quale investire non è mai sbagliato o ingiustificato”, sottolineano la compagna e la sorella di D’Andrea.

Capire per evitare che si ripeta
La speranza della famiglia, assistita dall’avvocato Gabriele Bordoni, va al di là dell’aspetto processuale: “Alessandro era un ragazzo disponibile e solare. Un lavoratore, una persona curiosa che non si fermava mai. Aveva voglia di vivere, di fare, di scoprire, di inventare – dice la compagna – Vogliamo comprendere cosa sia accaduto affinché la nostra tragedia possa servire, eventualmente, a evitarne di nuove, salvando la vita ad altri tecnici implementando la sicurezza su luoghi di lavoro simili a quello della centrale di Bargi. Lì sotto si sono interrotte le vite di sette persone”.

Alessandro, un aggeggione
Quella di Alessandro era iniziata a Forcoli, un piccolo comune in provincia di Pisa. La meccanica era sempre stata la sua passione. Costruire, smontare, ricostruire: aggeggioni, li chiamano in Toscana. “Una volta – ricorda la sorella – la preside chiamò nostra madre e le chiese di andare a scuola: Alessandro aveva costruito un circuito di luci al led sul banco, illuminandolo ma allo stesso tempo rendendolo inservibile. Lui le disse subito: ‘Mamma, portiamolo a casa, non esiste che lo buttino'”. Un’altra volta trasformò una bicicletta in una specie di scooter grazie al motore di una motosega per rendere più agevoli gli spostamenti tra le colline del Pisano. “Ci presentò un’amica in comune – aggiunge Sara Bianco – Non sapevo dove avrei potuto incontrarlo. Mi disse: ‘Te vai, passi una volta da Forcoli, tanto se non lo trovi a casa, sarà sicuramente in garage'”.

I sogni interrotti
Il lavoro per Alessandro D’Andrea non era mai stato un sacrificio. Né nel negozio di informatica dove aveva mosso i primi passi né quando, con la compagna, si era trasferito a Milano. Era spesso stato in giro per il mondo, prima con un’azienda di macchinari per l’alluminio quindi in una seconda per produzioni alimentari. Nel 2022, infine, era approdato alla Voith Hydro, dove programmava il “cervello” delle turbine idrauliche. “Era felicissimo perché impegnato nel campo delle energie rinnovabili, un modo per fare qualcosa che avesse un impatto reale sull’ambiente”, sottolinea Federica. Oggi, dopo un anno che Sara Bianco definisce “nebuloso”, non restano che bei ricordi e sogni interrotti: “La ristrutturazione della nostra casa a Masate, che stava seguendo di persona sporcandosi le mani, e poi i viaggi e il matrimonio”.

La strage dei professionisti
La sua era una vita in costruzione, vicina a raccogliere i frutti seminati. È stata spazzata via sul posto di lavoro: “La sicurezza era un tema di cui Alessandro parlava, sapeva che il suo mestiere comportava dei rischi. Ma – ribadiscono la compagna e la sorella – lì dentro erano professionisti competenti. Prendevano tutte le precauzioni possibili perché sapevano che i primi a poterci rimettere erano proprio loro”. Così nel vuoto rimasto, in attesa di poter sapere qual è stato il problema alla base dell’incidente, la famiglia ha deciso di compiere un piccolo passo, per conto proprio: “Abbiamo istituito una borsa di studio per gli studenti dell’Iti Marconi di Pontedera, dove Alessandro era cresciuto”.

Una traccia dopo l’incidente invisibile
I vincitori ricevono gratuitamente la fornitura dei libri scolastici e dei buoni da spendere per l’acquisto di materiale informatico. “Ci siamo chiesti cosa si potesse fare per i professionisti di domani, incentivandoli allo studio e parlando, allo stesso tempo, di cultura della sicurezza affinché ne abbiano conoscenza e consapevolezza. Vogliamo lasciare una traccia”, spiegano Sara Bianco e Federica D’Andrea nel ricordare Alessandro, anni trentasette, morto in una strage della quale si hanno poche immagini: un lago placido immerso nel verde, un pennacchio di fumo nero risalito da sottoterra e i vigili del fuoco al lavoro tra acqua e macerie con una luce fioca. Un incidente invisibile e ancora senza un perché.

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