La sanità fa e disfa, assorbe risorse, genera liste d’attesa e disservizi. Insomma è colpa sua: così nessuno ha responsabilità
- Postato il 20 dicembre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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di Fabiano Amati*
Reificazione, si dice in italiano buono: è una parola somigliante a una magia linguistica di grande utilità pubblica. Funziona così: prendi una decisione umana, una responsabilità precisa, un nome e un cognome, mettila al riparo in un frullatore di linguaggio istituzionale, premi il pulsante “astrazione” e ne esce una cosa. E a una cosa – che non decide, non firma, non risponde, ma che accade e basta – sei così pazzo da volere addebitare una colpa?
È un trucco antico ma sempre attuale. Se qualcosa va storto, non è perché qualcuno ha sbagliato, ma perché il sistema è complesso. Se una scelta manca, non è perché nessuno l’ha fatta, ma perché mancano le condizioni. È la versione adulta e più sofisticata della frase “si è rotto”, detta guardando il vaso già in mille pezzi. Si è rotto. Ma chi si è rotto? Il vaso, ovvio: che colpa vuoi che ne abbia chi l’ha rotto?
Applicata alla sanità, la reificazione dà risultati straordinari. Si ammala da sola. Non è colpa di nessuno. È la sanità che “non funziona”. Lo dicono i corridoi, lo confermano i comunicati, lo ribadiscono le statistiche e gli articoli giornalistici. La sanità, soggetto ormai adulto e autosufficiente, fa e disfa, assorbe risorse, produce liste d’attesa, genera disservizi. È come un fenomeno atmosferico: piove, nevica, fa caldo, fa freddo.
In questa narrazione impeccabile, la sanità non è più un insieme di decisioni umane, ma una cosa opaca, tecnica, impersonale e complessa. Un gigantesco elettrodomestico pubblico che sta sempre in cortocircuito. Nessuno l’ha progettato così, nessuno lo programma, nessuno lo accende e nessuno lo spegne. Semplicemente, accade. Le liste d’attesa, ad esempio, si formano. Non le forma qualcuno: si formano. Come le stalattiti.
Il personale manca. Non è che non sia stato assunto, formato, organizzato o distribuito male: manca e basta. I reparti soffrono perché abbiamo comandato un medico presso un’altra Asl? La colpa è del comando, mica di chi l’ha autorizzato.
I bilanci stringono. I sistemi informativi non dialogano. Tutti verbi riflessivi, impersonali, senza soggetto riconoscibile. La lingua è già assoluzione. Reificazione (trasformazione di soggetti in cose) e logomachia (battaglia protratta tra parole e concetti), per servire il pranzo dell’immobilità e dell’irresponsabilità.
Ed è qui che il trucco si fa più raffinato. Quando proprio qualcosa non sta funzionando in modo eclatante, spudoratamente riferibile alla responsabilità di qualcuno che non può più nascondersi nel bunker atomico della reificazione, ecco che la colpa c’è, ma è stata indotta dalla colpa di qualcos’altro. Sempre una cosa, e meglio se lontana.
Se governi la Regione, la responsabilità è del Governo nazionale: non dà abbastanza soldi e anzi li riduce. Se governi lo Stato, la responsabilità è delle Regioni: spendono male le maggiori risorse che hanno ottenuto. Nel mezzo, la sanità — povera cosa — resta schiacciata come un armadio troppo grande durante un trasloco istituzionale. Nessuno l’ha messo lì, nessuno sa come spostarlo.
“Non garantiamo i servizi perché non ci sono risorse.” Le risorse: altra entità metafisica. Arrivano o non arrivano, crescono o calano come le maree. Nessuno decide come allocarle, nessuno sceglie dove sprecarle o dove investirle. Le risorse mancano. Punto. “Non eseguiamo le prestazioni perché mancano i medici.” Anche qui, il verbo è rivelatore: mancano. Non sono stati programmati, formati, trattenuti, distribuiti o incentivati male. No. Mancano come manca l’ossigeno in alta quota. Fenomeno naturale. Il medico diventa una specie protetta, non il risultato di scelte precise su concorsi, contratti, incompatibilità, carichi di lavoro e rivendicazioni sindacali. Ammettere tutto per non fare nulla.
A questo punto entra in scena la mossa più rassicurante. Qualcuno, con aria responsabile, concede: “Sì, certo, esistono problemi di efficienza.”
Ed ecco l’elenco rituale, recitato come una litania che non obbliga a nulla: farmaci, dispositivi, attività libero-professionale, manutenzione, frammentazione dei luoghi del potere, assistenza domiciliare, psichiatria, specialistica ambulatoriale, violazioni delle incompatibilità, contributo di ponderazione. Sì, è vero. Tutto vero e noto. Tutto studiato. Ma — ci viene spiegato — non sono i problemi più grossi. I problemi stanno altrove. Sempre altrove. Sempre più in alto. Sempre più lontani. Sempre più reificati. Appunto, perché anche l’altrove non è un individuo ma una cosa.
Così il problema grande diventa una montagna indistinta: il finanziamento nazionale, la demografia, l’invecchiamento, la complessità del sistema, l’Europa, il mondo e — infine — detto con l’aria di chi si sta giocando l’asso di briscola: “non siamo gli unici, accade ovunque”. Ovunque, ancora una volta, una cosa. Una massa enorme, compatta e inafferrabile. Nessuno può scalarla, quindi nessuno ci prova. Ed è qui che il trucco diventa davvero costoso. Nel frattempo, i problemi “piccoli” — quelli concreti, misurabili, risolvibili — vengono dichiarati marginali. Trascurabili. Non prioritari.
Peccato che la matematica, ogni tanto, tradisca la metafisica. Perché la somma dei problemi piccoli — sprechi quotidiani, inefficienze tollerate, conflitti d’interesse ignorati, doppie agende, servizi frammentati, poteri diffusi e irresponsabili — è di gran lunga più grande del valore astratto del problema grande. Ma questo non si deve dire. Perché dire che il problema è fatto di mille decisioni mancate significherebbe doverle attribuire. E attribuire significa nominare. E nominare significa disturbare. E ciò che è costituito come potere politico, burocratico e sindacale non vuole essere disturbato e lotta strenuamente per mantenersi nella posizione in cui è.
Così si continua serenamente: il Governo non dà, la Regione non riceve e la sanità non ce la fa. Tre cose che dialogano tra loro, mentre le persone — quelle che decidono, gestiscono, controllano, lavorano — spariscono dal quadro come comparse inutili. E il cittadino impara la lezione fondamentale della reificazione: non arrabbiarti con nessuno, perché non c’è nessuno. C’è solo la sanità. Una cosa. E le cose, si sa, non rispondono.
Eppure le cose cambiano e migliorano, non restano immobili, e molte più persone oggi si curano e guariscono, nonostante tutto. Non perché le “cose” decidano, ma perché altri uomini, nel frattempo, inventano meravigliose tecnologie — cose umane — che bruciano barbe e parrucche, e smentiscono l’ultima reificazione e fanno crollare, ancora una volta, il mondo illusorio di chi si rifugia nel credo delle cose, nella collettivizzazione per metodo delle responsabilità individuali. Con un solo, tragico limite: la novità tecnologica è introdotta sempre in ritardo e in quel tempo sospeso chissà quanti individui si sarebbero potuti salvare.
Non ci resta, ancora una volta, che spingere l’innovazione tecnologica fin dove arriva, ricordando però che il mondo non si muove per piani perfetti, ma per una serie inarrestabile di effetti non intenzionali. Le menti umane e il loro potenziale non possono essere ridotti a un’unica intenzione collettiva.
*assessore al bilancio Regione Puglia
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