La notte in cui morì Luigi Tenco a Sanremo nei ricordi di un cronista, anni di grandi notizie

  • Postato il 5 ottobre 2025
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La notte in cui morì Luigi Tenco, suicida dopo una serata del Festival di Sanremo, per ragioni mai completamente chiarite, Arrigo Molinari avverti avvertì l’Ansa come prima cosa. 

Ma la telefonata non arrivò a me, che avevo 22 anni ed ero ancora praticante e all’Ansa da poco più di un anno, ma al mio capo, Gaetano Fusaroli.

Fusaroli mi svegliò alle 4 del mattino, mentre dormivo placidamente nel mio letto a Genova e mi mandò a Recco con un fotografo a cercare le reazioni del fratello di Tenco. Il quale giustamente ci mandò al diavolo.

Molinari, che era molto bravo nella gestione dei media, parlò sempre di me, in riferimento alla notte di Tenco, perché nel frattempo avevo fatto carriera ed ero diventato amministratore delegato della Stampa (1981), dell’Espresso (1984), di Repubblica (1989) e del Gruppo Espresso (1992), mentre Fusaroli (classe 1918) era andato in pensione e nessuno fuori degli intimi ne ricordava il nome.

All’epoca non avevo grandi rapporti con Arrigo Molinari, il commissario di Sanremo che avevo incontrato solo poche volte, con tanti altri e un anno prima per un delitto natalizio. Successivamente divenni amico di Molinari, che si era trasferito a Genova, e lo rimasi attraverso tutte le sue vicende e vicissitudini.

Il delitto “natalizio” servì a riempire le pagine dei giornali, scarsi di notizie interessanti in quei giorni fra Natale e Capodanno.

Il “Giallo di Riva Ligure” finì poi in una bolla di sapone. Lo si chiamava così così perché ne erano protagonisti due cognati che erano anche amanti e vivevano nelle fasce di Riva Ligure, dove si erano trasferiti dall’originario Abruzzo per coltivare garofani.

L’ipotesi dell’accusa era che i due avessero avvelenato il marito di lei per avere via libera alla loro relazione.

Un giudice poi li prosciolse e archiviò tutto. Ma in quei giorni, le notizie dosate da Molinari con sapienza tennero inchiodati a Sanremo numerosi inviati di giornali italiani.

Io, che ero entrato all’Ansa pochi mesi prima, festeggiai il mio quasi solitario Capodanno con Roberto Gelmini, futuro direttore della Nazione, e a dormire in una pensioncina della capitale del gioco e della canzone.

In quel dicembre 1966, le rotative torinesi sfornavano Stampa Sera con quel pulsare che sembrava quello del motore di un piroscafo e che le rotative di oggi, tra schermi antirumore e accorgimenti e tecnologie, non sono più in grado di emulare.

A coprire il giallo di Riva Ligure la Stampa mandò una coppia di bravissimi giornalisti, ai quali poi la vita riservò un diverso destino. L’inviato della Stampa, Beppe Del Colle, passò poi a Famiglia Cristiana e ne divenne anche il direttore. L’inviato di Stampa Sera, Mario Bariona, finì invece licenziato per aver passato un suo articolo, che il giornale si ostinava a non pubblicare, a Lotta Continua, cui era probabilmente più adatto, senza avere aspettato i sei mesi imposti dal contratto

Li accomunava una travolgente antipatia, dovuta forse più che alla loro natura allo stress che dettavano loro i ritmi scanditi da Torino. Tra i giornalisti presenti si era creato quel tanto di solidarietà che quasi sempre si verifica in questi casi. Gli americani lo chiamano “pool”.

Ci si diceva tutto, lasciando poi alla capacità narrativa dei singoli il compito di fare la differenza. Ma i due torinesi non facevano comunella con noi. Si aggiravano per la città come latitanti in fuga, come anime perseguitate da un demonio inesorabile, sempre alla ricerca di quel particolare in più che provocasse un gesto compassionevole da parte del loro spietato padrone.

Spesso ottenevano il contrario. Non essendo interesse degli inquirenti favorire un giornale a scapito di tutti gli altri, inclusa l’Ansa, i cui dispacci erano e sono letti in tempo reale dai superiori comandi a Roma, dove si decidono encomi e carriere,  ben poco potevano fare quei due famelici segugi scatenati contro una mezza dozzina di giornalisti.

Questi forse erano un po’ meno zelanti, ma della pattuglia, con me alle prime armi (avevo 21 anni) peraltro facevano parte fior di reporter come Sandro Osmani, gran signore e ottimo giornalista del Messaggero, e Cenzino Mussa della Gazzetta del Popolo, il concorrente torinese.

Prima esperienza sul campo

La notte in cui morì Luigi Tenco a Sanremo nei ricordi di un cronista, anni di grandi notizie ma ci si divertiva anche
La notte in cui morì Luigi Tenco a Sanremo nei ricordi di un cronista, anni di grandi notizie ma ci si divertiva anche – Blitzquotidiano.it

Anche Mussa sarebbe poi andato a Famiglia cristiana e all’Illustrato Fiat, ma in quei giorni il suo compito principale rispetto a noi non torinesi era quello di farci intravvedere, attraverso il racconto del concorrente, uno spiraglio di vita della mitica Stampa del mitico Giulio De Benedetti: come quando il direttore ordinava da bere un “canarino” (acqua calda e limone) e allora tutti i presenti a chiedere anche loro lo stesso.

Ci descriveva il regime di terrore che regnava Nela nella redazione, fino al 1968 alloggiata in Galleria San Federico, nel cuore di Torino.

Non credo si trattasse di maliziose esagerazioni perché io stesso, attraverso le storie che mi facevo raccontare da Giovannini, De Vecchi, Alfredo Berra, Fattori e che io ascoltavo come un bambino ascolta le fiabe, ho ricostruito un quadro non molto diverso.

E la sera che, tutti assieme noi fannulloni, demmo il “buco” ai due della Stampa, Mussa condivise con noi il crudele piacere: “Stasera a Torino deve essere successo qualcosa di tremendo. Napoleone è su tutte le furie, tuoni e saette volano. Guardate quei due come camminano rasenti ai muri.”

A definire la concorrenza tra i giornali, ho scoperto nei quarant’anni successivi a quella prima occasione, ci vuole ben altro che un particolare nascosto ai colleghi, ma neanche una notizia, anche la più esclusiva. Dipende dalle notizie che il giornale sceglie nel complesso, da come le presenta, da come le titola, da come sono scritte in italiano.

È l’interpretazione della realtà che il giornale offre ai suoi lettori, attraverso le notizie, il loro accostamento, il loro commento, in una parola è la linea editoriale e politica che determina, nel medio lungo termine, il successo di un giornale.

Ma questo allora non lo sapevo, non lo sapevano i colleghi in trasferta a Sanremo, meno che tutti lo sapevano Del Colle e Bariona e fingeva di non saperlo il loro direttore, che, ben consapevole della debolezza umana e della sua tendenza a lavorare in modo sciatto senza gli opportuni controlli, teneva i due poveretti in uno stato di continua tensione.

Di Giulio De Benedetti, cui il genero Eugenio Scalfari contende il titolo di più grande giornalista del ventesimo secolo, avrò occasione di celebrare i fasti in altre pagine di questi ricordi.

Per ora voglio limitarmi a raccontare i miei anni di vita e lavoro all’Ansa, prima a Genova poi a Londra, fino all’approdo, nel 1974, nel grande mondo della Fiat.

Dal Cantagiro a Sanremo

Nella foto Ezio Radaelli  mi redarguisce
– Blitzquotidiano.it (Nella foto Ezio Radaelli mi redarguisce)

Furono anni di intenso lavoro. A Sanremo ci tornai come inviato dell’Ansa nel 1971 e nel 1972, dopo una prima esperienza al Cantagiro,nel 1969, dove trovai anche moglie. Avevo 24 anni e tanto entusiasmo. Uscivo dalla provincia di Genova e mi trovai faccia a faccia con Lucio Battisti, Pippo Franco, Bruno Lauzi, era come essere entrato in un tubo catodico.

Fu anche una prima esperienza col gruppetto di giornalisti che si occupavano di canzone, tutti allineati e coperti con Ezio Radaelli, il quale ce l’aveva a morte con me perché io davo le notizie dei contestatori che aspettavano al varco la carovana del Cantagiro. Secondo Radaelli, le mie notizie allertavano i gruppetti nelle tappe successive.
Rividi Radaelli una quindicina d’anni dopo. Nel frattempo io ero diventato amministratore delegato della Stampa e Radaelli aveva agganciato Giovanni Giovannini, che era presidente dal giornale, cercando di convincerlo a lanciare una testata di spettacoli di cui lo stesso Radaelli sarebbe stato il direttore ombra.
Così Giovannini si leggeva Giorgio fattori e me a lunghi visite a Radaelli nella villa sulla cassia protetta da un paio di feroci mastini napoletani e decorata da imponenti dipinti impressionisti. Fattori col suo cinismo romano prevede come sarebbe andata a finire: “Per me sono tutti falsi, vedrai che un giorno vengono i carabinieri e li portano via”. Così fu.

Anche seguire due edizioni del festival di Sanremo fu per un giovane provinciale una emozione: allora il festival si teneva nel salone delle feste del casinò e la sala stampa era una sala relativamente piccola dietro il palco. Lì potei vedere come lavorava un grande giornalismo, Gigi Ghirotti, prima della sua scomparsa. E incrociai miti di quei tempi, come Lucio Dalla che chiedeva una sigaretta a Victor della Equipe 84, e Jose Feliciano al bar sorretto da una giovane assistente.

A cavallo fra gli anni ‘60 e ‘70 Genova fu teatro di una serie di grandi fatti di cronaca che attirarono gli inviati dei più importanti giornali. Il più emozionante fu l’alluvione del 1970. Rimasi solo in ufficio per 48 ore, con l’aiuto di due fotografi e dei telescriventisti. Ricordo come fosse ora: ero seduto alla macchina da scrivere davanti alla vetrata che guardava su via Edmondo De Amicis. Davanti la stazione ferroviaria sotto la quale passava una piccola galleria che consentiva ai pedoni di andare dall’altra parte della massicciata. Pioveva, pioveva pioveva e a un certo punto vidi uscire da quella galleria il getto del bisogno che aveva straripato: l’onda invase alla grande piazza Brignole convergendo la mia automobile che era parcheggiata lì.

In quel periodo l’ufficio dell’Ansa divenne una specie di hub del giornalismo italiano. Fu per me una grande occasione per conoscere e fare amicizia con personaggi come Giampaolo Pansa, che mi ha anche ricordato con simpatia in un suo libro.

Anche il livello dei corrispondenti locali era alto: ricordo con affetto Camillo Arcuri, ricordo con nostalgia Vezio Murialdi, padre di Paolo, capo redattore del Giorno prima di diventare un protagonista della vita sindacale dei giornalisti italiani, cui oggi è dedicato un centro studi sul giornalismo curato con passione da Giancarlo Tartaglia.

Di Vezio Murialdi, vecchio socialista perseguitato dal fascismo, ricordo soprattutto i grandi occhi celesti, le maniere gentili e un complimento che mi fece dopo avere assistito a una mia telefonata: “Complimenti, che aplomb”.

Ricordo anche con molto affetto le visite che mi facevano in coppia Guido Coppini e Mimmo Angeli, un grande reporter che sarebbe poi stato l’anima del Corriere Mercantile per decenni.

Una vacanza a New York

La notte in cui morì Luigi Tenco a Sanremo nei ricordi di un cronista, anni di grandi notizie
La notte in cui morì Luigi Tenco a Sanremo nei ricordi di un cronista, anni di grandi notizie – Blitzquotidiano.it

Su ispirazione del mio capo, Gaetano Fusaroli, avevo passato le vacanze del 1968 a New York, facendo finta di lavorare come telescriventi Stae all’ufficio dell’Ansa. La cosa non si verificò mai perché le leggi sul lavoro americane erano severissime e il fatto che ci fosse un lavoratore irregolare terrorizzava il capo dell’ufficio, Mauro Lucentini, fratello di Franco Lucentini del sodalizio letterario Fruttero & Lucentini che diede vita al romanzo “Donna della Domenica” e lui stesso autore di un bel libro di politica, “America che cambia”.

Fu così che la vacanza di lavoro si trasformò in una vacanza totale. Fu l’occasione per conoscere e fare amicizia con due persone che sarebbero rimaste nella mia vita per molti anni, Achille Lega e Licinio Germini.

Germini poco dopo si trasferì con la sua moglie americana a Londra, dove lo rividi alcune volte. Quegli anni a Londra per Licinio non furono felici. La sua natura esuberante era mortificata dall’asse fra il capo e la vice. Così alla fine fu trasferito ad Algeri. Licinio però sapeva delle mie ambizioni di esperienza internazionale e alla vigilia della partenza mi telefonò per informarmi che si apriva un vuoto nell’ufficio di Londra.

Erano le due del pomeriggio di un pomeriggio di primavera, a Genova, sereno e caldo, quando Licinio mi chiamò per allertarmi.

Mi precipitai a telefonare a Sergio Lepri, direttore dell’Ansa, il quale dopo una breve esitazione acconsentì.

Nel frattempo, ero diventato, grazie all’appoggio di Filiberto Dani, corrispondente della Stampa da Genova e cullavo il sogno di essere assunto dalla Stampa come inviato.

Appoggiato e confortato da due miei amici che già lavoravano a Torino, Sandro Casazza e Mimmo Candito, chiesi a Giovannini un appuntamento. Giovannini era stato da poco nominato amministratore delegato. Mi aveva telefonato pochi mesi prima per commentare un articolo su La Malfa, amico e patrono del direttore Ronchey.

Giovannini mi esortò a partire: a 27 anni io a Londra ci andrei anche a piedi, mi disse. Era la risposta che negli anni futuri avrei dato a chi mi avesse fatto la stessa domanda. Uscito dall’ufficio di Giovannini mi precipitai nel bar all’angolo proprio vicino all’obitorio di Torino, dal telefono a gettoni che mai chiamai Lepri e gli dissi che ero pronto a partire.

Furono due anni di vacanza, perché i miei colleghi anziani mi misero subito in guardia:

“Qui i ritmi di lavoro non sono quelli di Genova, datti una calmata.”

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