La Lady Macbeth appassionata che scatenò la censura di Stalin
- Postato il 7 dicembre 2025
- Cultura
- Di Libero Quotidiano
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La Lady Macbeth appassionata che scatenò la censura di Stalin
In principio fu un articolo di nera. In un angolo sperduto della Russia zarista, una donna fa fuori tutti gli uomini di casa. È il 1860, Alessandro II Romanov sta per abolire la servitù della gleba e Nikolai Leskov inventa la sua Lady Macbeth del distretto di Mcensk. Autentico fake letterario che proietta l’eroina shakespeariana dal sangue blu, in un povero villaggio della ex Lituania. Ekaterina Izmailova è la giovane sposa di un vecchio proprietario terriero che s’innamora del primo bracciante assunto, di nome Sergej. Da lì a cascata i delitti, dal suocero stupratore avvelenato con una zuppa di funghi, il marito impotente ammazzato e nascosto in cantina, fino all’omicidio suicidio della protagonista in un lago ghiacciato “nero come la sua anima” in Siberia, dove - succedeva già allora -, viene deportata. Il soggetto finisce nelle mani di Dmitrij Šostakovic che compone una musica strepitosa.
Appena venticinquenne, riscrive con l’aiuto di Aleksander Prejs il libretto – alleggerendolo dell’infanticidio, a scopo di eredità, del nipote – e ne fa un’opera dissacrante e rivoluzionaria, quanto la Sagra della Primavera di Stravinskij. È il tempo delle avanguardie da Musorgskij a Prokofiev, alla ricerca di nuovi linguaggi artistici. Al debutto, il 22 gennaio del 1934 a Leningrado e due giorni dopo a Mosca, il successo è clamoroso con oltre duecento repliche. Il pubblico è rapito, perla sua spietata critica sociale e l’inedito realismo della rappresentazione della sessualità. Un successo popolare che non sfugge al Cremlino. Stalin due anni dopo assiste all’opera dal suo palco blindato in cemento armato al Bolshoi e dà ordine di stroncarla sulla Pravda con queste parole «Caos invece di musica». Per Šostakovic è la fine. Premessa necessaria per questa prima, ancora una volta dedicata ad un titolo russo, che impone di rispolverare i libri storia. E per scoprire il fil rouge che lega quest’opera a Milano. Qui era già stata pubblicata in anteprima mondiale un altro titolo messo all’indice dal regime sovietico, Il dottor Zivago di Boris Pasternak. E fu proprio la Scala, grazie al direttore artistico Francesco Siciliani, a tendere per prima la mano al compositore “caduto in disgrazia”, chiedendogli di scriverne una versione edulcorata, che però andò in scena solo nel 1964 diretta da Nino Sonzogno. Per l’originale bisognerà attendere il 1992 con la regia di André Engel e la direzione di Myung-Whun Chung con ulteriori riprese dell’allestimento nel 2007. «Un capolavoro del ’900 che mancava dal nostro teatro da ben diciotto anni», spiega il sovrintendente Fortunato Ortombina. «C’è grande attesa e curiosità per questo ruolo dalla femminilità estrema, primordiale un po’ come la Salomè di Richard Strauss». Occhi puntati, dunque, sulla interpretazione della protagonista, il soprano statunitense di origine polacca Sara Jakubiak. «Il maestro Chailly mi ha spremuto come un’arancia, dico solo che cantare il ruolo di Ekaterina sarà come guidare una McLaren, con accelerazioni fortissime quasi da Formula 1». Un personaggio difficile da interpretare non solo vocalmente, sempre sul ciglio di un baratro, tra scene di erotismo e di sangue. Šostakovic, rispetto alla novella di Leskov, prova a farne una donna alla disperata ricerca d’amore e libertà, una tragica eroina per la quale alla fine il pubblico riesce anche a provare pietà. Accanto a lei un cast eccellente, con il basso Alexander Roslavets nei panni del suocero violento e stupratore (Boris Timofeevic Izmailov), il tenore Najmiddin Mavlyanov che interpreta Sergej, il bracciante agricolo di cui s’innamora ma che cercherà solo di sfruttarla e il tenore YevgenyAkimov nella parte dell’anziano e impotente marito. La regia è firmata dal russo Vasily Barkhatov, per la prima volta alla Scala con il suo team, lo scenografo Zinovy Margolin, la costumista Olga Shaishmelashvili, il light designer Alexander Sivaev. Il regista che ha appena trionfato a Barcellona con quest’opera, spiega: «Con Chailly abbiamo dato vita a una drammaturgia che lascia spazio alla musica, quasi da film – Sostakovic fu il primo a comporre per il cinema-, capace di passare dal grottesco alla tragedia».
E aggiunge. «Nella rappresentazione delle opere ci sono dei clichè. Il nostro obiettivo è liberare la vicenda dalle convenzioni e concentrarci sugli aspetti psicologici di Katerina. Tutto ruoterà attorno al personaggio principale, in una drammaturgia che si sviluppa lungo i ricordi, le confessioni e in perpetua oscillazione tra humour e tragedia». Via le scene di sesso – la prima viene solo raccontata, la seconda trasformata in un banchetto con panna montata - la scenografia sposta la storia dalla povera campagna di fine Ottocento ad una città russa negli anni Cinquanta, gli ultimi della dittatura di Stalin. Ecco, tra le quinte, una sezione di un grande edificio borghese in stile Art Deco sovietico. In ogni piano, si consuma la vicenda, tra cuochi dai cappelli bianchi intenti ad allestire il banchetto della nuova coppia di sposi, gli uffici fumosi della polizia locale dove Ekaterina viene arrestata. E se in questa Lady Macbeth tutto è fuori misura, anche le scene si ergono imponenti, così come la desolazione nel quarto atto “siberiano” dei forzati che riprendono il cammino a bordo di un camion. «Lev Tolstoj diceva che il compito dell’arte è far amare la vita, pur con tutte le sue brutture e le tragedie. Šostakovic ha fatto lo stesso con la sua musica dove la combinazione tra riso e disperazione è evidente. È come essere sulle montagne russe». Un attimo ridi per una stupida battuta e subito dopo sei dentro l’acqua gelida, senza respiro.
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