La guerra contro gli autovelox, i guardrail vetusti e gli altri strumenti per ridurre gli incidenti: cosa sta facendo il governo per la sicurezza stradale?

  • Postato il 16 novembre 2025
  • Cronaca
  • Di Il Fatto Quotidiano
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Meno incidenti e meno morti sulle strade italiane nei primi sei mesi del 2025, ma ancora i numeri delle vittime sono troppo alti. Il recente rapporto di Aci e Istat è stato subito rilanciato dal ministero delle Infrastrutture e Trasporti, guidato da Matteo Salvini, sottolineando che il nuovo Codice della strada è “fondamentale per salvare vite”. Ma i quasi 100 morti in meno (1.310 contro i 1.406 dei primi sei mesi del 2024) non sono sufficienti e viene evidenziato nello stesso rapporto: “La riduzione delle vittime mostra un progresso che negli ultimi anni è stato debole, confermando la necessità di intensificare le azioni per conseguire l’obiettivo europeo del dimezzamento delle vittime entro il 2030″. Per risalire la graduatoria sul tasso di mortalità stradale – che vede l’Italia ancora al diciannovesimo posto tra i 27 Paesi Ue – serve pertanto intervenire per migliorare la sicurezza stradale: ma cosa sta facendo il governo sul tema? Al di là degli annunci, continua la battaglia di Salvini contro gli autovelox senza però intervenire sul nodo fondamentale dell’omologazione, mentre le infrastrutture stradali presentano numerose criticità (come i guardrail vecchi e non aggiornati) e le norme attuali non prevedono ulteriori strumenti per ridurre in maniera consistente i tassi di mortalità e incidentalità. Argomento che oggi, in occasione della Giornata mondiale in ricordo delle vittime della strada, assume particolare rilievo.

Il censimento degli autovelox

Uno studio scientifico del dipartimento di ingegneria industriale dell’Università di Firenze, presentato a ottobre, evidenzia che gli autovelox sono strumenti utili per ridurre gli scontri con feriti e morti, in particolare – viene specificato – gli incidenti “con conseguenze mortali subiscono una riduzione che va dal 15% al 26%”. “Gli autovelox non servono a far cassa ma a salvare vite“, ha sottolineato durante la presentazione Stefano Guarnieri, il presidente dell’associazione Lorenzo Guarnieri che ha finanziato lo studio e che è impegnata per ridurre il numero di vittime della strada. Una prospettiva molto diversa da quella del ministro Salvini che da anni è protagonista di una vera e propria battaglia contro gli strumenti di rilevazione della velocità, contro quella che lui definisce la “giungla degli autovelox”. Il 30 novembre scade il termine per Comuni e forze dell’ordine per comunicare, sul portale appositamente creato, i dati tecnici relativi ai dispositivi per l’accertamento delle violazioni dei limiti di velocità in loro possesso: se non lo faranno l’utilizzo degli autovelox diventerà illegittimo e dovranno pertanto essere spenti. Un censimento voluto proprio dal leader della Lega. Dati che, alla fine, saranno pubblicati sul sito del ministero e che tutti potranno consultare.

Il nodo dell’omologazione (mai risolto)

“Tutti i comuni d’Italia dovranno comunicare al Ministero quanti sono gli autovelox, dove sono, perché e se sono omologati, quelli che non verranno comunicati verranno spenti. Purtroppo negli anni per fare cassa sulla pelle dei lavoratori hanno messo anche tanti autovelox furbetti, nascosti, su strade a due, tre, quattro corsie”, ha detto il vicepremier a settembre presentando l’ultima novità. La narrazione è sempre la stessa: i Comuni – per guadagnare dalle multe – installano dove vogliono gli autovelox. In realtà questi strumenti hanno bisogno dell’autorizzazione della Prefettura locale, cioè l’istituzione che rappresenta proprio il governo sul territorio. C’è di più. Salvini utilizza impropriamente un termine: quello di omologazione, che è il vero tema di questi mesi. Sono sempre più numerose le pronunce della Corte di Cassazione che annullano le sanzioni per eccesso di velocità emesse utilizzando autovelox non omologati ma solo autorizzati dal ministero delle Infrastrutture. Quella che sembra un semplice contestazione ad alcuni strumenti non in regola con le norme, in realtà è una vicenda molto complessa. Semplicemente perché nessun autovelox in Italia è omologato, in quanto iter e criteri di omologazione non sono mai stati previsti: e riguarda non solo i dispositivi utilizzati dai Comuni ma anche, ad esempio, quelli utilizzati dalla Polizia stradale. E cosa ha fatto Salvini per risolvere il problema? Nulla. Al di là di modifiche su dimensioni e distanza dei cartelli stradali di segnalazione e il divieto di installare i radar nelle strade con limite inferiore a 50 km/h, non è cambiato niente. A marzo scorso ha annunciato la soluzione con la predisposizione di un decreto ministeriale che dichiarava omologati gli autovelox “approvati dal 2017 in poi”: due giorni dopo però è stato lo stesso Salvini a ordinare il ritiro del provvedimento. Quindi il caos per automobilisti e Comuni rimane.

Le alternative (ancora non praticabili)

In alterativa agli autovelox esistono numerosi strumenti di rallentamento, che tanti altri Stati utilizzano, ma che in Italia non possono essere presi in considerazione perché il ministero non li autorizza. C’è ad esempio, utile per le strade extraurbane, il semaforo dissuasore che riconosce un veicolo che procede a una velocità troppo elevata e, in tal caso, attiva le luci gialle e poi rosse, costringendo così il conducente a rallentare e fermarsi. Sono molto utilizzati all’estero e possono eventualmente essere anche dotati di apparecchio fotografico per identificare i trasgressori. O, in ambito urbano, i cosiddetti “cuscini rallentatori“, una sorta di dosso (ma quadrato e di circa un metro e mezzo) che può essere installato anche in zone spesso attraversate dai veicoli di soccorso, senza creare problemi. Ma in Italia manca la normativa che regolamenta l’uso della strumentazione alternativa. Basterebbe solamente copiare gli altri Stati europei per migliorare la sicurezza delle strade, soprattutto quelle cittadine dove si verifica il maggior numero di incidenti. E anche per rendere più sicura la mobilità degli utenti più deboli della strada: persone in bici e pedoni.

Le barriere di sicurezza vetuste

C’è poi il problema dello stato delle infrastrutture stradali. Oltre a buche e problemi al manto stradale, c’è ad esempio la criticità relativa alle barriere stradali di sicurezza. Aveva provocato molto scalpore il grave incidente dell’ottobre del 2023, quando un bus di turisti è precipitato da un cavalcavia a Mestre provocando 21 morti: in quell’occasione l’attenzione si era concentrata proprio sulle condizioni del guardrail in quel tratto di strada. Come spiega Aisico – azienda italiana impegnata nel campo della sicurezza stradale e infrastrutturale – le barriere stradali di sicurezza oggi in esercizio sulle strade italiane sono state progettate negli anni90, quando le auto pesavano in media circa 1.200 chili. Oggi Suv e veicoli elettrici superano spesso i 1.800 chili, “ma il quadro normativo resta fermo all’ultima revisione delle norme sulle barriere che risale al 1992”. In caso di urto con Suv o auto elettriche, pertanto, la capacità di contenimento delle barriere può risultare gravemente compromessa. Tra l’altro le norme attuali non obbligano la sostituzione in caso di barriere inadeguate o usurate, “creando un vuoto normativo che espone gestori e automobilisti a rischi concreti”. “Servono nuovi standard e strumenti digitali per censire e monitorare in modo continuo lo stato reale delle infrastrutture. È urgente, a livello continentale, un aggiornamento del quadro normativo, perché le norme oggi in vigore non rispecchiano più l’evoluzione del mondo dell’automotive. Il modo migliore per onorare le vittime è lavorare perché simili tragedie non si ripetano”, commenta Ottavia Calamani, Ceo di Aisico. Le strade italiane sono pertanto ancora insicure e intervenire su questi e tanti altri aspetti potrebbe ridurre in maniera significativa il numero dei morti.

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