La critica d’arte è davvero al capolinea o si sta trasformando? Risponde Angela Vettese
- Postato il 21 agosto 2025
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- Di Artribune
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Pubblichiamo di seguito l’intervista alla storica e critica d’arte Angela Vettese.
Quando si è smesso di fare critica?
Non direi che si sia mai smesso, se per critica si intende commento e valutazione su varie sedi: dal giornale alla rivista specializzata, sotto forma di recensione a mostre ed eventi. Certamente la critica non è più una guida che determini in modo importante le fortune di un artista, anche se ci sono firme, poniamo quella di Roberta Smith negli Stati Uniti, che ancora possono determinare o smontare delle carriere. Oggi questo ruolo pertiene molto di più a curatori e galleristi, che agiscono con i fatti (inserire in una mostra, produrre un lavoro) che con le parole.
La critica reclama una sua autonomia?
La critica dovrebbe essere un controcanto libero all’azione di curatori e galleristi, ma non sempre ne è capace, anzi spesso diventa un momento di approvazione ulteriore delle scelte di queste categorie. D’altra parte, ripeto, se per critica si intende l’attività di scrittura, forse il suo ruolo migliore è quello di approfondire e far capire il lavoro di un artista. In questo senso andrebbero ripensate le riviste d’arte e in generale gli organi di informazione, che troppo spesso hanno uno sguardo superficiale, amano le classifiche, si attestano su descrizioni scandalistiche e non fanno un lavoro di approfondimento.
Che ruolo gioca l’attuale capitalismo culturale-artistico?
C’è sempre stato, da quando si è affermata l’idea di arte come la concepiamo oggi: la famiglia Borghese a Roma, il signor Correr a Venezia, i Rockefeller a New York, coloro a cui Vollard, Durand Ruel e Kahnweiler vendevano i quadri prima degli impressionisti e poi dei cubisti…. la committenza è stata sempre legata al capitale, anzi, ne abbiamo persi due pezzi, perché un tempo c’era anche il capitale del potere politico e quello del potere ecclesiastico. Non c’è via di uscita, anche se si cerca di dare una ripulita apparente in termini di correttezza politica. Chi paga le grandi commissioni delle opere densamente politiche di Steve McQueen o di Isaac Julien o di El Anatsui? Chi ha consentito le grandi serie di opere nella Turbine Hall della Tate Modern, se non grandi imprese che sono protagoniste del capitale? Sono contraddizioni irrisolvibili, che Hans Haacke ha messo in luce già da decenni.
Sullo stato della critica d’arte: Angela Vettese
Come si inserisce la figura del curatore in questo contesto?
Il curatore sceglie alcuni artisti da portare in evidenza e a cui dare il privilegio di essere presenti con le loro opere in una mostra, più o meno importante. Spesso lo fa garantendosi che la produzione sia pagata da una galleria commerciale, perché è l’unico soggetto che ha il denaro per farlo. Quindi esiste un’alleanza tra curatori e galleristi che, peraltro, c’è stata dal Novecento in poi. Sono stati galleristi come Leo Castelli e Ileana Sonnabend in America, Plinio De Marchis, Fabio Sargentini e Gianenzo Sperone (tra gli altri) che hanno finanziato ciò che definiamo “neoavanguardie”: cioè non solo arte commerciale ma anche esperimenti come la Process Art, la Land Art, il concettuale più immateriale.
Perché ci sono sempre più percorsi accademici per diventare curatori e non critici?
I critici guadagnano meno e forse servono meno. Servono solo se scrivono saggi di vasto approfondimento su un movimento o su un artista, cioè proprio il tipo di pubblicazione che non viene pagata. Il critico sopravvive solo se viene a far parte della redazione di una rivista, e quindi ha uno stipendio in quanto redattore, oppure se è così famoso da dare una svolta alla carriera di un artista. Ma è una condizione molto rara, quest’ultima.
La critica non è più commerciale di un tempo, dice Angela Vettese
La critica di oggi ha una valenza commerciale, di promozione?
Non più di un tempo. Certo non abbiamo nomi di grande coraggio come Lucy Lippard, Willoughby Sharp, Pontus Hulten, la nostra Carla Lonzi. Ma ricordiamoci che sono vissuti al tempo di una grande rivoluzione linguistica, che era bello descrivere e affiancare e che oggi non c’è più. O piuttosto ha compiuto il suo corso aprendo l’arte visiva a qualsiasi linguaggio, definitivamente. Qualche teorico di valore come Nicolas Bourriaud e Claire Bishop, qualche storico come Bruce Altshuler e Terry Smith, qualche critico-mercante visionario come Jeffrey Deitch hanno dato molto, ma non hanno avuto una vera rivoluzione da descrivere. Quella era stata fatta prima.
L’aumento di testi critici è indirettamente proporzionale al loro impatto nel sistema?
Non capisco la questione: i testi servono quando c’è una mostra da spiegare. Come introduzioni o come recensioni. Non si dovrebbe chiedere a un testo più di quello che ha da dare, cioè una spiegazione convincente di una poetica artistica. Non è richiesta alcuna operazione di lancio commerciale. Per quello ci sono i galleristi, i curatori e anche quei nuovi soggetti che sono i musei, con i loro curatori interni e la loro forza di proposta. In effetti ciò che crea il successo di un artista sono le mostre che fa, dentro a mostre estemporanee, dentro a una delle mille biennali, dentro alle stanze di un’istituzione autogestita o di un museo nazionale. Credo che difficilmente un cattivo artista abbia successo, mentre penso che molti artisti di pregio non abbiano l’occasione di farsi notare. Ma la responsabilità non può ricadere sui critici, che hanno un potere bassissimo perché a loro manca la possibilità di far produrre, esporre, vedere le opere di un artista. Anche nel tempo dei social, le opere devono esistere in carne e ossa e il potere per fare questo è in mano a galleristi e curatori, non ai critici.
A cura di Caterina Angelucci
critica: https://www.artribune.com/arti-visive/arte-contemporanea/2025/08/critica-arte-stato-oggi/
carla lonzi: https://www.artribune.com/tag/carla-lonzi/
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