Israele colpisce l'Iran, il Medio Oriente è in ebollizione

  • Postato il 26 ottobre 2024
  • Guerra
  • Di Panorama
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Israele colpisce l'Iran, il Medio Oriente è in ebollizione



Tutti nella regione sapevano che una risposta israeliana all’Iran sarebbe arrivata. L’azione militare di stanotte – che ha colpito obiettivi militari a Teheran, nel Khuzestan e intorno a Ilam –era attesa. Anche perché segue quel concetto rovinoso che nella regione sono soliti chiamare «vendetta araba» e che da un secolo a questa parte ha più volte precipitato i Paesi che compongono il Medioriente, in spirali di sangue di cui oggi vediamo i disastrosi risultati.

Dopo che l’Idf, le forze armate israeliane, hanno annunciato che «la rappresaglia è conclusa» e dopo aver intimato all’Iran di «non rispondere, altrimenti reagiremo ancora», la domanda nasce spontanea: c’era davvero bisogno di questo attacco? «È la risposta all’attacco iraniano del primo ottobre», sostiene Gerusalemme. Ma cui prodest? E si può essere certi di cosa farà o non farà adesso il regime di Teheran? Risponderà a sua volta, creando un circolo vizioso e senza fine?

A Washington DC c’era l'aspettativa – la speranza – che Israele avrebbe atteso fino a dopo le elezioni presidenziali americane prima di compiere un gesto simile. Lo aveva chiesto(inutilmente) a Netanyahu lo stesso presidente Biden, consapevole che l’America vive il momento di maggior debolezza e incertezza, essendo al ridosso di un’elezione quanto mai delicata per gli stessi equilibri interni statunitensi. Ma proprio per questo Netanyahu ha agito: il comportamento del premier israeliano sembra non tenere in gran conto – e già da molto tempo – l’opinione del suo grande alleato occidentale, e ha sfruttato l’impotenza formale del periodo elettorale americano per smarcarsi dagli ordini di scuderia del suo «socio di maggioranza».

Nondimeno gli alleati americani del Golfo hanno tutte le ragioni per essere molto nervosi. Soprattutto a partire da questa mattina, in attesa di vedere come e se risponderà l'Iran. L’Arabia Saudita, in particolare, ha condannato gli attacchi militari israeliani definendoli una «violazione della sovranità iraniana e del diritto internazionale» e invitando le parti alla «moderazione». Parole che, come riporta la Saudi Press Agency (Spa), seppur evitano di fare diretto riferimento a Israele, indicano in Gerusalemme il responsabile principale dell’aumento indebito della tensione. Riad, sinora equidistante nella tempesta che ha incendiato la regione e in procinto di riconoscere lo Stato di Israele al fine di allacciare per la prima volta relazioni diplomatiche ufficiali, inizia a lamentarsi delle «inutili» prove muscolari da parte israeliana.

In Arabia Saudita è infatti ancora vivo il ricordo della facilità con cui gli Houthi, la milizia dello Yemen sostenuta dall’Iran, sono riusciti a infliggere gravi danni alle sue installazioni petrolchimiche in un singolo attacco con droni e missili, nel 2019, che ha messo in ginocchio l’impianto più grande al mondo (quello di Abqaiq proprietà della Saudi Aramco) e mandato in fumo per settimane cinque milioni di petrolio al giorno. Riad lo ha ricordato soprattutto agli attaché militari degli Stati Uniti, che come noto hanno basi militari lungo tutta la sponda araba del Golfo, con la Quinta Flotta della Marina statunitense che opera da un porto strategico in Bahrein. E che è giustamente in massima allerta in queste ore.

Gli Stati Uniti per parte loro hanno fatto sapere di non essere stati coinvolti nell’attacco all'Iran, e con ogni probabilità sono stati avvertiti soltanto poche ore prima. Il problema è che un centinaio di militari a stelle e strisce sono attualmente dispiegati in Israele come equipaggio per gestire il sistema di difesa aerea Thaad, e ora la Casa Bianca teme che possano trovarsi coinvolti in eventuali ritorsioni iraniane. Il presidente Joe Biden aveva intimato a Israele di non colpire installazioni nucleari, petrolifere e di gas dell’Iran. E, a quanto pare, almeno in questo Netanyahu ha seguito il suo consiglio: a essere colpiti sono stati infatti i soli sistemi di difesa aerea, impianti di produzione missilistica e lanciatori di missili terra-terra nei distretti di Teheran, Khuzestan e Ilam, nella parte occidentale del Paese. Gli americani sperano così che l’attacco «modesto» possa convincere l’Iran a non far scattare un’altra «vendetta araba».

Per il momento anche il regime iraniano minimizza: «I resoconti che sostengono che 100 aerei militari israeliani abbiano avuto un ruolo nell’attacco sono bugie assolute, poiché Israele sta cercando di esagerare il suo debole attacco con danni limitati», ha affermato una fonte citata dall’agenzia di stampa iraniana Tasnim, aggiungendo anche che i siti del Corpo delle guardie della rivoluzione islamica a Teheran, i Pasdaran (che sono l’altro volto del potere iraniano) non sono stati presi di mira. Il che è storicamente una risposta tipica dell’Iran dopo attacchi di questo tipo.

Tuttavia, il primo vicepresidente iraniano Mohammad Reza Aref ha dichiarato che «il potere dell’Iran umilierà i nemici della madrepatria». Ragion per cui «è difficile fermare una serie di attacchi e contrattacchi quando i Paesi interessati credono di essere visti come deboli e dissuasi se non rispondono. È così che le guerre si intensificano e peggiorano» scrive da Gerusalemme Jeremy Bowen della Bbc. Ed è proprio qui il nodo. Astenendosi dall’attaccare i siti petroliferi o nucleari iraniani, Israele ha potenzialmente lasciato spazio per una de-escalation, ma non è detto che basti a fermare nuove rappresaglie.

Il portavoce militare di Israele, il contrammiraglio Daniel Hagari, ha dichiarato dopo la conclusione degli attacchi che se l’Iran dovesse iniziare «un nuovo ciclo di escalation», Israele sarebbe «obbligato a rispondere». Il che, comunque, indica una fine delle ostilità per il momento e rimette in mano iraniana la decisione. Ma fino a quando sarà tollerata l’attività bellica di Israele nella regione? Fino a dove si può spingere davvero Gerusalemme?

L’Idf è attualmente impegnata in un palese redde rationem su quattro fronti: a Gaza, dove continuano le operazioni militari anche dopo che Yahya Sinwar, capo di Hamas nella Striscia ed eminenza grigia dell’attacco del 7 ottobre 2023, è stato qui ucciso; in Libano, dove l’aeronautica militare israeliana ha colpito più di 70 «obiettivi terroristici» di Hezbollah nelle stesse ore in cui conduceva gli strike in Iran; in Siria, dove i sistemi di difesa aerea sono stati colpiti anche questa notte per lasciare libertà d’azione ai caccia diretti in Iran e dove si colpiscono i depositi delle milizie filo-iraniane che collaborano con il «partito di Dio» libanese.

Infine in Yemen, dove i ribelli Houthi che hanno spaccato in due il Paese stanno guadagnando visibilità e prestigio nel contesto del cosiddetto «asse della resistenza» che unisce Iran, Libano (Hezbollah), Siria e Palestina (Hamas). Dietro a loro, a osservare l’evoluzione degli eventi ci sono anche Russia, Cina e Corea del Nord. E proprio questo elemento dovrebbe far riflettere e spaventare: è come se, da quando la Russia ha attaccato l’Ucraina nel febbraio del 2022, questo sconvolgimento abbia provocato – voluto o meno che sia – una sorta di «via libera» generalizzato alla guerra, sia essa di conquista (Ucraina e Taiwan), volta a regolare i conti (Palestina e Libano) o a modificare lo status quo (Yemen, Coree). Con ciascun Paese che si ritaglia un ruolo diverso: chi fa il «lavoro sporco», chi ingaggia conflitti diretti, chi fornisce armi e ingrassa l’industria militare.

Un effetto domino che non solo consente, ma autorizza più Paesi a coalizzarsi – insieme alla Russia oggi in Ucraina si apprestano a combattere anche truppe della Corea del Nord – in una sorta di nuovo «asse del male» (copyright George W. Bush) in preparazione forse a una guerra che si estenderebbe dall’Europa orientale al Medio Oriente e Asia centrale, come dal 38esimoparallelo alle coste di Taiwan. Una guerra mondiale, cioè, che forse non ci sarà mai, ma che a causa delle molteplici azioni ostili tra tutti i protagonisti sopra citati, è sempre più possibile.

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Autore
Panorama

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