‘Io’ di Wolfgang Hilbig: la paranoia e la claustrofobia della ex Ddr

  • Postato il 1 settembre 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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In genere i corridoi di cantine sotto le case di Berlino sono puliti, e la maggior parte illuminati a sufficienza. Quell’inverno erano anche tiepidi, il gelo non era ancora penetrato fino alla loro profondità. Là sotto c’erano posti – e uno in particolare, dove mi recavo spesso – in cui stavo seduto per ore su una cassa di legno a fumare e ascoltare l’ineffabile massiccio dell’immensa città di Berlino che dormiva sopra la mia testa.

Io, di Wolfgang Hilbig (traduzione di Roberta Gado e Riccardo Cravero; Keller Editore), è un denso, cupo e grottesco romanzo che affronta la solitudine, l’alienazione, la memoria, il rapporto tra individuo e Stato, e la disintegrazione dell’identità. Nelle tortuose cantine e nei corridoi sotterranei di Berlino Est. il protagonista della storia, W. – uno scrittore di provincia arruolato dalla Stasi con il nome in codice “Cambert” – riceve l’incarico di pedinare un enigmatico autore. Ciò che inizia come una semplice missione di spionaggio si trasforma rapidamente in un’odissea psicologica, un precipizio nell’abisso dell’esistenza.

Il confine tra osservatore e osservato si dissolve, la realtà si fonde con l’allucinazione, mentre Cambert, nel suo inseguimento ossessivo, scivola in un vuoto esistenziale dove il suo stesso “io” si frantuma in un gioco di specchi. Io è un’esplorazione claustrofobica, vertiginosa e inquietante dell’identità e del controllo. Un’immersione a fondo nelle paranoie e nelle assurdità di uno stato di sorveglianza.

Sopra il parallelepipedo dei grandi magazzini e il tetto in vetro della stazione della S.Bahn incombeva una nebbiosa luce grigia, alle mie spalle il cielo frastagliato dai tetti presentava zone nere di temporale. Stava già arrivando la primavera… e io ero ancora vestito come in pieno inverno; la stagione avanzava più veloce dei miei pensieri tardigradi (…) mi resi conto di quanto fosse immaginaria la vita che conducevo.

Con una prosa malinconica, Wolfgang Hilbig scrive una critica sotto forma di grande narrativa. Una critica venata di umorismo grottesco, ai meccanismi di controllo della DDR, dove l’identità personale si sgretola sotto il peso dei ruoli imposti dallo Stato e l’”io” del protagonista viene ridotto a un mero simbolo, racchiuso tra virgolette.

Pubblicato poco dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1993, il romanzo trae linfa dalle esperienze personali di Hilbig e dai dossier della Stasi, offrendo un ritratto agghiacciante e autentico di una società intrisa di paranoia. Non si tratta però di un semplice documento storico, ma di una riflessione atemporale sulla perdita del sé in sistemi oppressivi, presentata con una modernità sorprendente che ne fa un testo iconico della letteratura tedesca.

Che cosa cercava di ricordarmi di continuo? Erano mesi che riattaccava con l’argomento, a cadenza quasi regolare ma sempre cogliendomi di sorpresa, tanto che cominciavo a temere quei momenti. Però non andava oltre le allusioni; e tutte le volte mi lasciava la sgradevole sensazione che su, ai cosiddetti piani alti, sapessero di me più di quanto ne sapessi io stesso.

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Il Fatto Quotidiano

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