In cerca del dialogo. Ecco il Festival del Cinema Europeo di Lecce
- Postato il 19 novembre 2024
- Cultura
- Di Formiche
- 1 Visualizzazioni
Se volessimo cercare una anima filosofica, fil rouge in grado di unire più di uno dei dieci film in concorso alla XXV Festival del Cinema Europeo di Lecce (ideato e diretto da Alberto La Monica, coadiuvato nella selezione dei film da Luigi La Monica), è sicuramente quella dialogica, ossia quella “filosofia del dialogo” che ha animato tutto il nostro Novecento. Il cinema del terzo millennio è sempre più chiamato a raccontare la crisi del soggetto in una Europa attraversata da un secondo esistenzialismo, da un disagio nietzschiano del vivere quotidiano: tra instabilità economiche planetarie, alterazione dell’habitat naturale, nuove povertà, digitalizzazione accelerata. Tutto, inoltre, per il Vecchio continente, tra i poli storici di due assurdi conflitti: la guerra dei Balcani e l’inizio della guerra russo-ucraina.
Ecco allora che un adolescente, con una mamma assente, un padre inesistente, un amico esitante, debba affrontare, durante la solitudine delle vacanze estive, il drammatico cambio di orientamento sessuale sottoponendosi a delle umiliazioni per l’immancabile senso di colpa; ma grazie all’amore del nonno troverà la luce in fondo al tunnel: il danese B.O.Y di Seren Green. E se una madre in carriera non si capacita della morte del figlio ventenne, ottimo studente universitario (Mother Mara, della serba Mirjana Karanovic: i suoi piani fissi scavano in profondità), è perché dopo una certa età i figli non “parlano” più con genitori super stressati dal lavoro, e vivono una vita parallela (qui il vizietto della cocaina con gli amici, vissuta come un must durante una festa, porta al tragico evento).
Solitudine di una ragazza, Ebba (una inquietante Camilla Gode Kron: lo spettatore la scoprirà schizofrenica) che, con lucidità maniacale, inventa un mondo parallelo: My Wonderful Stranger, della norvegese Johanna Pyykkö. Ebba, forse per colmare violenze subite a scuola nell’infanzia, isolata dalle altre bambine, ha bisogno di possedere qualcuno sino a sopprimerlo. La “vittima” è un ragazzo immigrato soccorso in strada, che ha perso la memoria: ella inventerà per lui e per sé stessa un vissuto altro. Un mondo fluttuante, come la camera di Pyykkö sempre in movimento.
Capita che Emma (la bravissima Carla Juri), una giovane moglie, si getti dalle scale perché sottoposta alla violenza psicologica di un marito acculturato (architetto). Egli, efficiente e uomo in carriera, non la picchia ma la umilia (“eri nessuno, ti ho dato un lavoro… il tuo francese di merda”); un uomo che non comunica ma comanda e contrabbanda per “amore” il suo maschilismo, per “diritto coniugale” la violenza sessuale: siamo nel lussemburghese/belga Breathing underwater di Eric Lamhène. Emma accolta in una casa-famiglia di donne violate, scrigni di preziose sofferenze simili alla sua, ricostruisce la fiducia nella vita grazie anche ai bambini ospitati nella casa.
La ricerca del dialogo assume la leggerezza della commedia dai tratti dadaisti, ma anche da riflessione seria, sottotraccia, sull’egoismo e sull’immaturità, che vanno superati nel crescere un figlio, perché un figlio non appartiene mai a un solo genitore. Tutto raccontato nel frizzante Jim’s story dei francesi Arnauld e Jeanne-Marie Larrieu, cui va il premio del SNCCI e il “Premio del Pubblico”. Una regia ricca di soluzioni sia negli interni che negli esterni, attenta a seguire i personaggi senza soffocarli: sia il timido Aymeric (una sorta di Totò il buono terzo millennio: un lirico e posato Karim Leklou) che la tellurica Florence (la “cubista” Laetitia Dosch).
Avere il coraggio di parlare superando gli steccati ideologici, in questo caso teologici, ed interpretare correttamente cosa ci rac-comanda la nostra religione. Ci dice di amare o uccidere l’altro che abbiano di fronte quando non appartiene al nostro credo? Come va interpretato un testo? Possiamo fare dire al testo quello che il testo non dice (direbbe Umberto Eco, I limiti della interpretazione)? Certamente no. Con il tedesco Martin Reads the Quran di Juriijs Saulei entriamo in un film di ricerca teoretica partendo dalla filologia: “Cosa dice il testo circa la verità”? Un professore e uno studente, in una grande aula universitaria deserta, si confrontano sui passi del Corano concernenti l’infedele. Il giovane vuole delle spiegazioni dall’esperto docente di islamistica: prima di far saltare delle bombe telecomandate. Un asciutto kammerspiel (superbo il professore: è il noto Ultrich Tukur) grazie anche ad una narrazione che si rivela anfibologica nel finale. Tutto era vero? Oppure semplice immaginazione delirante dello studente pseudo-attentatore?
Dal racconto sperimentale è l’attualissimo Drowning Dry del lituano Laurinas Bareiša. Due sorelle sposate, Ernesta e Juste, con i loro mariti-cognati, Lukas e Tomas, durante il fine settimana in campagna, con i rispettivi bambini, Kristupas e Urte. Lukas fa il pugile, Tomas si occupa di business. Nello chalet di famiglia delle donne, con tanto di laghetto, mangiano e prendono il sole. I bambini giocano. Due famiglie apparentemente felici, con qualche incrinatura: Juste appare insofferente verso Tomas; Ernesta non vuole che Lukas continui a prendere pugni. Ma il forte amore tra le due sorelle tiene unite le famiglie.
Poi accade l’inattesa tragedia: Tomas, getta in acqua, dal pontile di legno sul laghetto, per scherzare, Kristupas (il maschietto) e poi anche Urte (la bambina), per invitarli a nuotare. Kristupas riemerge e nuota, Urte non riemerge. Nello stacco successivo ecco Lukas che porta sul prato Urte priva di sensi e le pratica la respirazione bocca a bocca, dopo aver scansato Tomas piuttosto maldestro nei soccorsi. Urte è salva: ma il giorno dopo ha difficoltà a respirare. Va chiamata un’ambulanza per l’ospedale. Le auto dei due cognati seguono l’ambulanza con a bordo Urte e sua madre. Juste. Ma quella guidata da Lukas, con a bordo Ernesta va contro un camion (non vedremo l’impatto). Solo dopo sapremo che Lukas è morto e i suoi organi vivono in un altro uomo: questo consola il piccolo Kristupas.
Il racconto non sequenziale, procedendo per “salti” e intenzionali vuoti narrativi, scene ripetute, procedimento chiamato a tradurre gli sprazzi della memoria danneggiata da uno choc (lo vediamo nella ricostruzione dei due incidenti: ’annegamento e quello automobilistico), è valso a Drowning Dry il premio per la “Miglior sceneggiatura”. Oltre a quello per il “Miglior attore” a Paulius Markevičius (Lukas).
Il greco Wishbone, della regista Penny Panayotopoulou (premio per la “Migliore Fotografia”), ci conduce dentro un caso di malasanità in un ospedale greco (“in parte è autobiografico”, ha dichiarato la regista), inserito in una triste vicenda famigliare, con accenni al razzismo sociale, in un iperrealismo di taglio pasoliniano: qualcosa che può accadere anche nel nord Europa. Panayotopoulou dirige il protagonista, Giannis Karampampas, proveniente dal teatro, con mano sicura facendone un futuro attore di cinema dalla forte presenza scenica.
Nel portoghese Noite claires di Paulo Felipe Monteiro seguiamo, in montaggio alternato, due famiglie: la crisi di una giovane mamma dopo il parto (“mi sento grassa e brutta”) e i dilemmi esistenziali di un giovane divorziato Lauro (il fratello della neo-mamma: uno stralunato Romeu Ruma), con un figlio di sette anni, che deve accettare la propria omosessualità per anni repressa. Noites claires affronta temi delicati e quotidiani, con alcune immagini e composizioni scenografiche felicemente surreali (il lavoro del protagonista nella camera mortuaria – egli pettina le salme – ricorda lontanamente Il bruciatore di cadaveri di Jurai Herz), ma, purtroppo, il racconto si aggrappa ad un happy end alquanto sbrigativo.
Three Days of Fish, dell’olandese Peter Hooogendoorn (si è aggiudicato il premio principale, ossia l’Ulivo d’Oro della Giuria Internazionale e il premio Fipresci della Critica Internazionale), ha tutta l’aria di un piccolo capolavoro, girato in un bianco e nero fortemente contrastato, che rimanda alla nouvelle vague anni Sessanta (da Antonioni, passando per Godard, sino a Forman e Jancso). Siamo di fronte alla storia di un padre anziano, Gerrie (l’asciutto e scultoreo Ton Kas), ex operaio meccanico specializzato, che torna dal Portogallo, per visitare i suoi figli e gli amici. Ormai ha deciso di godersi la modesta pensione al sole, dopo la morte sella moglie.
Per tre giorni Gerrie è ospite della figlia, felicemente sposata e con due bambini (scarrozzanti per la casa). Ma il rapporto delicato è con il figlio, il quarantenne Dick (Guido Pollemans: poetico ed esemplare nella sua quasi afasia psicologica), disoccupato e sognatore (fidanzato con la riservata Bianca – la delicata Line Pillet). Dick accompagna il padre in questi tre giorni: per le visite mediche; nei pub poolari dove Gerrie saluta i pochi vecchi amici rimastigli, tutti sono malconci e malinconici; alla vecchia azienda, a far visita al suo amico del cuore, “è morto due anni fa”, gli dicono; al cimitero a “trovare” la moglie. I due attraversano la città e la periferia., sui mezzi pubblici e a piedi: parlano poco. Spesso tacciono. Hoogendoorn ci dice come sia difficile creare un dialogo tra adulti provati dalla vita, agiti da micro dolori sepolti nel fondo dell’anima.
La scena finale sulla banchina della stazione, con padre e figlio uno di fronte all’altro, è un saggio di cinema che sarebbe piaciuto a Krzysztof Kieślowski. Il padre è salito sul treno, è rimasto sull’entrata della carrozza, lo sportellone è aperto. Silenzio. Si guardano. Gerrie sdrammatizza “Ora io sono più altro”. Dick non raccoglie. È serio. Chissà a cosa pensa. Minuti interminabili. Dick non se ne va. Pare non voglia lasciare Gerrie, suo padre. Un silenzio corposo, trasuda pensieri che lo spettatore deve immaginare. Ancora si guardano. Poi Gerrie: “Sto bene qui”. Dick, replica “Sto bene qui, pure io”. Altri minuti. Si fissano immobili. Attendono la partenza del treno. Il tempo pare sospeso. Poi arriva il fondo. Fine. (O inizio?).