Ilva, il no dei pm al dissequestro di Afo1: “L’incendio di maggio? I dispositivi di sicurezza erano guasti”

  • Postato il 18 novembre 2025
  • Giustizia
  • Di Il Fatto Quotidiano
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L’altoforno 1 dell’ex Ilva di Taranto sarebbe stato rimesso in marcia nell’ottobre 2024 come se fosse tutto in ordine. Ma in realtà, secondo gli atti dell’inchiesta aperta dopo l’incendio che lo ha devastato nel maggio scorso, non lo era affatto. Insomma, quando il ministro delle Imprese Adolfo Urso andò a festeggiare la ripartenza dell’impianto, le sue condizioni erano tutt’altro che perfette. A rivelarlo sono i documenti dell’indagine della Procura di Taranto che nell’agosto scorso ha detto “no” al dissequestro.

Secondo il pubblico ministero Francesco Ciardo, come anticipato da La Gazzetta del Mezzogiorno, l’incendio del 7 maggio divampò a causa del malfunzionamento di almeno una delle “termocoppie”, uno dei dispositivi di sicurezza dell’altoforno, che non segnalò l’aumento della temperatura, contribuendo a scatenare le fiamme che gli operai definirono “mai visto prima”. Un rogo gigantesco, colonna di fumo visibile per chilometri, finito con il sequestro dell’Afo1 e con lo scontro istituzionale tra i magistrati e il ministro Urso.

Il titolare del Mimit, allora, accusava i magistrati di aver bloccato con la loro attività necessarie alla salvaguardia dell’impianto – che doveva essere spento, in quel momento, ma i lavori dell’Afo2 erano in ritardo – e di mettere con la loro azione a rischio la vendita del siderurgico. Ma ciò che emerge ora dagli atti è che perfino quando Urso entrò in stabilimento per la cerimonia di riavvio dell’altoforno, in ottobre, l’impianto non era affatto in piena efficienza.

Secondo i documenti citati da La Gazzetta, la termocoppia della tubiera 11 – “letteralmente liquefatta” durante l’incendio, scive il pm – “risultava guasta già dalla ripresa delle attività dell’ottobre 2024”. E a sette mesi esatti dal riavvio, la stessa apparecchiatura non era stata “mai sostituita né riparata”. Non si tratta, tra l’altro, di un caso isolato: al momento dell’incidente, le termocoppie non operative erano 11 su 96, oltre il 10%: “Un numero significativo”, annota la procura nel decreto con cui, nell’agosto scorso, ha rigettato la richiesta di revoca del sequestro avanzata da Acciaierie d’Italia in amministrazione straordinaria, gestore dell’impianto e guidata da 3 commissari scelti proprio da Urso.

Quel provvedimento – rimasto finora inedito – mette in fila tutte le cause dell’incendio individuate dagli inquirenti, sulla base delle analisi di Vigili del Fuoco, tecnici dello Spesal e dell’Arpa Puglia, oltre alla consulente della Procura, Paola Russo, docente alla Sapienza di Roma. Secondo i magistrati, “questa grave carenza ha impedito il tempestivo rilevamento di eventuali anomalie termiche” e “non ha consentito l’attivazione delle procedure operative previste”.

Accertare le cause dell’incendio, si legge nel decreto, “risulta necessario e fondamentale per i rilevantissimi profili attinenti alla sicurezza dell’impianto e di conseguenza dei lavoratori ivi impiegati” e per la “comunità cittadina posta in prossimità dello stabilimento”. Da qui, il no al dissequestro. Anche perché, l’evento fu di “pericolosissima portata”, scrive la Procura.

Parole che contrastano frontalmente con la narrazione politica delle ultime settimane. Solo pochi giorni fa, infatti, il ministro Urso aveva sostenuto che l’intervento della magistratura di maggio “ha ridotto le capacità produttive del sito, costringendo i commissari a rivedere i piani aziendali, chiedendo un ulteriore ricorso alla cassa integrazione”.

Ma ciò che emerge dagli atti – e che Acciaierie d’Italia conosce da agosto – racconta ben altro: gli accertamenti “hanno evidenziato diversi profili di criticità relativi alle condizioni di precarietà manutentiva dell’impianto”, oltre a problemi di “inidoneità” o “omessa manutenzione delle apparecchiature finalizzate a segnalare la presenza di possibili guasti o situazioni di rischio”.

Non solo: l’inchiesta ha messo a nudo anche i limiti delle procedure operative standard e delle prassi imposte ai lavoratori nelle situazioni di emergenza. Carenze che, scrive la Procura, non sono affatto “di superficiale rilievo”. La notizia arriva nel giorno in cui a Roma torna a riunirsi il tavolo tra governo e sindacati dopo l’annuncio dell’estensione della cassa integrazione fino a 6mila lavoratori a partire da gennaio. Una soluzione contestata dai metalmeccanici che parlano di un “piano di chiusura” e di “tradimento” di Urso.

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