Il riarmo europeo rilancerà l’economia e l’industria: non si poteva fare lo stesso sforzo per salvare il pianeta?

  • Postato il 29 giugno 2025
  • Blog
  • Di Il Fatto Quotidiano
  • 1 Visualizzazioni

È finita, per ora, la guerra tra Israele, il suo alleato principale, gli Stati Uniti, e l’Iran, ma di guerre ce ne sono ormai a iosa e quindi l’Europa non ha abbandona il progetto di armarsi. Certo la motivazione non è nostalgica, per esempio una sorta di ritorno ai “bei tempi” della Guerra Fredda per i paesi della vecchia Europa dell’Ovest; piuttosto a monte c’è una nuova realtà fredda e contabile, misurata in percentuali di Pil, miliardi di euro, armi intelligenti e nuove catene di produzione. Il riarmo insomma fa bene al portafoglio.

Le cancellerie europee, però, ci vogliono far credere che abbiano abbandonato decenni di disarmo programmato, sostituendo alla radice dell’avventura europea il concetto di pace con quello di deterrenza espansiva sotto la pressione americana e sotto la minaccia russa. Una deterrenza contro chi? Putin? Contro cosa? Il caos mondiale attuale?

Ufficialmente, al centro di questo nuovo paradigma vi è un dato: l’obiettivo, perseguito con cocciutaggine dagli Stati Uniti e ormai accettato con remissiva convinzione dai partner europei, di destinare entro il 2035 il 5% del Pil europeo alla difesa, di cui il 3,5% in spesa diretta militare e l’1,5% in spese di resilienza. In parole povere: una quota sempre più ampia delle nostre economie sarà destinata a mantenere, potenziare e far funzionare le macchine della guerra.

Il nuovo corso è stato inaugurato in gran pompa magna al vertice Nato dell’Aia del 2025, palcoscenico perfetto. Una vittoria per il presidente Donald Trump che ha ottenuto quello che già reclamava durante il suo primo mandato: un’Europa che “paga la sua parte”. Con una narrazione muscolare, fatta di elogi, minacce e improvvisi momenti di apparente magnanimità, Trump ha piegato la retorica europea. Non più parole sulla pace, non più accenni all’autonomia strategica: ora si parla di carri armati, droni e logistica.

Nel contempo, la Commissione Europea ha lanciato il piano “Readiness 2030”, un’iniziativa che prevede l’attivazione di 800 miliardi di euro in quattro anni per finanziare la corsa al riarmo continentale. Di questi, 650 miliardi arriveranno dall’alleggerimento dei vincoli fiscali per permettere agli Stati di aumentare la spesa militare fino a un +1,5 % del Pil senza violare i parametri europei. I restanti 150 miliardi saranno distribuiti come prestiti comuni per investimenti strategici: difesa aerea, sistemi missilistici, cyber-sicurezza, produzione munizionamento. Insomma: l’industria bellica diventa progetto europeo.

Due nazioni, Polonia e Francia, incarnano due modelli diametralmente opposti, ma paradossalmente complementari, all’interno del progetto di riarmo europeo. La Polonia, guidata da Donald Tusk, ha deciso di la trincea avanzata della Nato, il fronte più esposto e, quindi, più armato. Con una spesa militare che ha già raggiunto il 4,7 per cento del Pil, Varsavia investe a ritmi vertiginosi in armamenti americani e sudcoreani: F-35, Himars, K2, K9, Abrams e così via. Il tutto accompagnato da una narrazione identitaria e marziale che fa della paura l’elemento coesivo nazionale.

La Francia, al contrario, punta sulla sovranità industriale. Con un budget da 413 miliardi di euro fino al 2030, Macron investe su un complesso militare-industriale nazionale solido: Dassault, Naval Group, Nexter e Mbda. La strategia francese è chiara: riarmarsi per ridurre la dipendenza dagli Usa, costruire una filiera strategica autonoma, fare della difesa un volano per l’integrazione continentale. Ma facciamo attenzione, la logica è quella dell’accumulo e della preparazione al conflitto, non della prevenzione.

Ed ecco il vero motivo del riamo: un’opportunità economica. Il riarmo massiccio è destinato a rimettere in moto settori industriali chiave: aerospazio, navalmeccanica, elettronica avanzata, cyberdifesa, cantieristica e robotica. Per molte nazioni europee, si tratta di un’occasione per rilanciare la propria industria manifatturiera, creare occupazione qualificata e tornare a investire in ricerca e sviluppo.

La Francia, ad esempio, vede nel riarmo la possibilità di rafforzare la propria autonomia strategica e di stimolare la domanda interna. I grandi gruppi della difesa vivranno una stagione d’oro, con effetti positivi sull’indotto, dalle Pmi ai distretti tecnologici.

Anche l’Italia, con Leonardo, Fincantieri e Avio Aero, conta di beneficiare della nuova domanda europea, se saprà posizionarsi come hub tecnologico all’interno della catena del valore continentale. La difesa dual-use, cioè tecnologia applicabile sia in ambito militare che civile, diventerà una leva per lo sviluppo di soluzioni ad alta intensità di innovazione: comunicazioni satellitari, semiconduttori, intelligenza artificiale, batterie, radar.

Infine, il riarmo concepito come investimenti pubblici nella difesa viene visto come il volano keynesiano di economie rallentate che genererà più domanda di beni, più occupazione, più entrate fiscali. Non è un caso che anche gli economisti ortodossi inizino a vederlo come un motore anticiclico, in grado di far fronte alla stagnazione strutturale dell’eurozona.

Ma attenzione: l’industria della difesa genera profitti, sì, ma anche dipendenza tecnologica, sprechi e collusioni. E, come ogni settore regolato politicamente, premia le relazioni più che l’efficienza. Ma non basta, prima o poi a qualcuno verrà voglia di usarle quelle armi.
E la domanda che mi sale alle labbra è la seguente: questo sforzo enorme non poteva essere fatto per lanciare l’economia verde e quella circolare? Se i soldi ci sono o si trovano, allora perché non li abbiamo usati per salvare il pianeta invece di proteggerci da nemici immaginari?

L'articolo Il riarmo europeo rilancerà l’economia e l’industria: non si poteva fare lo stesso sforzo per salvare il pianeta? proviene da Il Fatto Quotidiano.

Autore
Il Fatto Quotidiano

Potrebbero anche piacerti