Il regista Aliverta racconta Pagliacci di Leoncavallo in scena al Rendano di Cosenza
- Postato il 17 dicembre 2025
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Il Quotidiano del Sud
Il regista Aliverta racconta Pagliacci di Leoncavallo in scena al Rendano di Cosenza

Il 20 e 21 dicembre 2025 a Cosenza andrà in scena Pagliacci di Leoncavallo, il regista Aliverta racconta l’allestimento del Rendano
COSENZA – Il teatro Rendano di Cosenza si prepara ad accogliere “Pagliacci” di Ruggiero Leoncavallo. L’opera andrà in scena, per la stagione lirica con la direzione artistica di Chiara Giordano, sabato 20 dicembre, alle 20,30 e, in replica, domenica 21 dicembre, alle 18.
Nel teatro di tradizione si respira aria di allestimento, il palco è occupato dalla scenografia (vietato rivelarla in anteprima, per consentire la sorpresa della scoperta al pubblico che assisterà alla messa in scena). I ballerini provano la coreografia e si confrontano con il regista per le posizioni in scena e per l’intenzione dei movimenti. Sono gli ultimi giorni di prove. In campo scenografi, musicisti, cantanti ma anche maestranze per gli ultimi ritocchi e le sarte alle prese con la sistemazione dei costumi. L’attesa di Pagliacci, una delle opere più conosciute al mondo, porta con sé una carico di emozioni e anche di curiosità.
La regia dell’allestimento è di Gianmaria Aliverta, uno dei registi italiani di nuova generazione più interessanti e con una importante carriera in corso. Proprio il regista ci rivela la sua “idea” di Pagliacci.
Cosa ha pensato per la messa in scena dell’opera di Leoncavallo?
«Nel pensare a questo allestimento di Pagliacci, non ho voluto mettere il punto tanto sull’aspetto territoriale, come spesso accade nelle opere di matrice verista, ma su altro».
Come mai?
«Le ragioni sono due. La prima è il desiderio di togliere l’aspetto folklorico e pittoresco, di superare quella tendenza a rendere “caricaturale” il contesto in cui la vicenda si svolge. La seconda è che il tema di cui parla Pagliacci – quello del delitto d’onore, della gelosia, del possesso – non appartiene a un luogo preciso. È una ferita umana che, purtroppo, continua a manifestarsi ancora oggi in ogni parte d’Italia e del mondo».
Guardando la scenografia si percepisce che lo spazio scenico non ha una connotazione territoriale (sappiamo che Pagliacci è ambientata in Calabria a Montalto Uffugo) ma è un luogo neutro.
«Ho scelto, infatti, di spostare la narrazione da un ambiente rurale di fine Ottocento-inizio Novecento a uno spazio neutro, quasi astratto: un set cinematografico o televisivo, una sorta di scatola bianca dove realtà e finzione convivono. In questo modo si elimina l’aspetto pittoresco e si entra più profondamente nel cuore della vicenda, lasciando emergere i lati umani e psicologici dei personaggi».
Parlando di personaggi…
«Il centro emotivo resta Canio, che in questo allestimento è un attore di successo, un comico conosciuto, amato, popolare. È l’uomo che fa ridere, la star della compagnia. Ma questa condizione, invece che dargli libertà, lo ha reso prigioniero del suo stesso personaggio. Canio vive nella trappola di Pagliaccio: chi lo circonda si aspetta solo ironia, leggerezza, risate. Nessuno lo prende più sul serio. E questa incomunicabilità lo divora. Canio non è più percepito come uomo, ma solo come maschera. Non può più mostrarsi vulnerabile, non può più parlare d’amore, di dolore o di paura. Ed è proprio questo continuo confronto tra l’uomo e il personaggio, tra la persona e la maschera, che finirà per scatenare la sua parte più oscura. Fermo restando che l’atto finale che compie non può in alcun modo essere giustificato: Canio uccide due persone, e ciò resta e deve restare un gesto inaccettabile».
Canio quindi mostra tutte le sue debolezze.
«L’intento non è giustificare, ma comprendere: andare a scavare dentro la psiche di un uomo distrutto, capire come il vuoto, la perdita d’identità, l’incapacità di essere ascoltato possano condurre all’abisso».
E gli altri personaggi?
«Accanto a lui, ogni personaggio vive la propria prigionia interiore. Nedda, la giovane compagna, è sospesa fra riconoscenza e ribellione. È diventata celebre grazie a Canio, ma sente che quella vita non le appartiene più. In Silvio, giovane e innamorato, trova la promessa di un futuro diverso, più autentico, più vicino alla sua età e ai suoi desideri. È combattuta fra il senso di colpa e il bisogno di libertà. Tonio, invece, incarna un’altra forma di oscurità. È un uomo segnato nel corpo – o forse finge di esserlo – e utilizza questa sua condizione come strumento di potere e manipolazione. I suoi difetti diventano armi: li usa per ottenere attenzione, per destare compassione, per piegare gli altri ai propri desideri. Ma quando non riesce nei suoi intenti, esplode tutta la sua rabbia repressa. Beppe, l’Arlecchino, è il più equilibrato, il mediatore, colui che cerca di mantenere la calma e la serenità nel gruppo. Ma anche lui, con la sua volontà di sedare tutto, contribuisce inconsapevolmente a soffocare le tensioni, fino a farle esplodere. Sono tutti, in qualche modo, causa e vittima del proprio male. In Pagliacci non ci sono buoni o cattivi, ma esseri umani che oscillano tra desiderio, paura, amore e distruzione».
Una vicenda sempre attuale che gira intorno al drammatico tema del femminicidio…
«Ecco perché ho voluto ambientare la vicenda in un contesto neutro, lontano da ogni riferimento geografico preciso, per restituirle un valore universale. Non perché voglia negare le radici del verismo, ma perché trovo più giusto riconoscere che la violenza, la gelosia e la perdita del controllo non appartengono a una regione, ma all’uomo. Sono la manifestazione di una società – la nostra – che spesso non riesce a elaborare le proprie fragilità, e che per questo continua a produrre dolore».
Il Quotidiano del Sud.
Il regista Aliverta racconta Pagliacci di Leoncavallo in scena al Rendano di Cosenza