Il presidente dei geologi: “Liguria come Valencia? Possibile su tutta la costa, inutile alzare gli argini”

  • Postato il 6 novembre 2024
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  • Di Genova24
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alluvione genova 2011

Genova. Un evento catastrofico come quello di Valencia e dintorni è possibile “in tutti i paesi della riviera ligure” a causa della conformazione del territorio. E non esistono soluzioni di breve termine che garantiscano la definitiva messa in sicurezza delle aree più esposte al rischio. A dirlo è Paolo Airaldi, presidente dell’Ordine dei geologi della Liguria, mentre l’Europa si interroga sul disastro in Spagna e dalle nostre parti sono appena trascorse due tragiche ricorrenze: il 4 novembre l’alluvione del Fereggiano che causò sei vittime a Genova nel 2011, il 5 novembre l’alluvione del Centa che sommerse Albenga nel 1994. Nel frattempo continua il dibattito a livello politico: Marco Bucci ha invocato leggi meno stringenti per il dragaggio dei torrenti e qualche giorno fa l’ex governatore Giovanni Toti ha auspicato “più cemento, non meno” per difendersi dalle alluvioni.

Airaldi, giriamo la questione a lei: più cemento o meno cemento per metterci in sicurezza?

Bella domanda. Dipende dalla realtà. Ci sono realtà talmente compromesse che pensare a interventi di rinaturalizzazione diventa difficile. Molti dei nostri corsi d’acqua sono tombati nel sottosuolo delle città, dove la cementificazione ha raggiunto il livello massimo e magari sopra sono state costruite strade di scorrimento: in questi casi c’è poco da fare. Su Genova la questione va affrontata con interventi come gli scolmatori, anche se è difficile prevederne uno per ogni torrente.

Molti parlano invece di rinaturalizzazione.

Allora dovremmo per forza allargare i corsi d’acqua e questo vorrebbe dire allontanare i centri abitati che li hanno sempre più compressi. Nella situazione originaria queste aree erano naturali casse di espansione in cui le acque in eccesso si potevano sfogare senza danneggiare nessuno. Oggi queste situazioni in Liguria non esistono più: nelle peggiori ipotesi sono aree urbanizzate, in quelle migliori sono destinate all’uso agricolo.

Quindi dobbiamo rassegnarci al cemento?

Bisogna vedere il caso specifico. Può esserci un corso d’acqua in cui si risolve la situazione con un semplice intervento arginale, allargando l’alveo a scapito della viabilità che verrà trasferita altrove, come previsto in qualche caso dai piani di bacino. In altri casi ci sono schiere di fabbricati che fanno da argine al corso d’acqua stesso. In un’ottica di lungo termine di messa in sicurezza – o meglio, di riduzione del rischio – e adattamento al cambiamento climatico, questi insediamenti andrebbero delocalizzati trovando nuove aree da edificare.

Ad esempio dove si potrebbe fare?

Esistono diversi insediamenti industriali dismessi in fascia A o B che potrebbero essere rinaturalizzati, invece è più facile che vengano portati avanti progetti di rigenerazione urbana laddove sarebbe più opportuno recuperare spazi di espansione. Anche il regolamento regionale che prevedeva la possibilità di edificare in fasce a rischio elevato andava in questa direzione. Sarebbe meglio evitare, anche se non è detto che la pericolosità sia sempre a livelli tali da non consentire l’edificazione. Oltretutto gli strumenti che ci forniscono le Autorità di bacino andrebbero aggiornati.

Perché?

I valori di piovosità risalgono a più di vent’anni fa. Coi cambiamenti climatici avvenuti nel frattempo, le portate dei corsi d’acqua andrebbero incrementate. È cambiato anche il di piovere: l’intensità dei fenomeni è aumentata e i tempi in cui si manifestano si sono ridotti. I piani di bacino dovevano essere strumenti dinamici, in realtà sono rimasti strumenti statici. I franchi idraulici, ad esempio, non sono più attuali.

Ieri, a margine della commemorazione delle vittime del Fereggiano, si è parlato di semplificare le leggi per consentire il prelievo di materiali dagli alvei, in pratica il dragaggio dei torrenti. È una pratica utile o dannosa?

Di norma il prelievo di inerti dai fiumi è vietato dalla legge. Detto questo, assume un senso nel momento in cui il corso d’acqua viene studiato nel suo complesso, ricostruendo il suo profilo di equilibrio e verificando quanto il profilo attuale se ne discosta. La porzione di sovralluvionamento è quella che può essere asportata per mantenere l’equilibrio, andare oltre diventa un problema. Un intervento simile, con un monitoraggio periodico delle quote di sedimentazione e l’asportazione del materiale in eccesso, è già in atto nel Savonese, sul torrente Sciusa a Finale Ligure. Al momento sembrerebbe funzionare, ma non si sono ancora verificati eventi catastrofici, quindi l’idea è ancora da collaudare.

Se si abbassa il letto di un torrente senza studi specifici quali rischi si corrono?

In prossimità della foce si possono creare ingressioni marine, ma si possono produrre anche problemi sulle arginature: in presenza di fondazioni non particolarmente profonde, un prelievo sconsiderato o eccessivo potrebbe minarne la stabilità. È possibile procedere ma con cautela, le cose non vanno fatte a caso.

In Liguria c’è un’area che corre più di altre il rischio di un evento disastroso come quello di Valencia?

Potrebbe succedere ovunque. La conformazione morfologica della costa ligure è simile a quella parte della Spagna, in cui abbiamo versanti collinari e montani alle spalle di aree pianeggianti di modeste dimensioni. I corsi d’acqua vengono giù impetuosi dai versanti, la corrente di piena subisce forte rallentamento e questo determina l’espansione delle acque e l’allagamento delle aree circostanti. Certamente può accadere nella piana di Albenga, ma anche a Genova e in generale in tutti paesi della riviera ligure. L’elemento scatenante sono le piogge eccessive in pochissimo tempo. Nel caso dell’alluvione del Centa ci riferiamo a un evento meteorico notevolissimo, ma con un’estensione tale che ultimamente non si è più vista perché oggi i fenomeni sono localizzati: porzioni ristrette di territorio su cui si scaricano volumi d’acqua significativi in tempi brevissimi. Nessun corso d’acqua è in grado di reggere.

Nemmeno alzando gli argini, per tornare alla domanda iniziale?

Se li alziamo e concentriamo l’acqua in un canale ristretto aumentiamo la forza erosiva e il rischio di sifonamento: in pratica l’argine si mette a galleggiare e il fiume se lo porta via. Soluzioni a breve termine non ce ne sono, bisogna studiare le soluzioni che meglio si adattano. Si parla di vasche di laminazione, bacini di ritenuta, tutte possibilità realizzabili o meno in base a situazioni contingenti e locali. La piana di Albenga è una grande vasca di laminazione, ma oggi è una piana agricola, ogni metro di terreno ha un certo valore e sono tutte proprietà privati. Vorrebbe dire espropriare, magari mettere in difficoltà tante persone. La valutazione spetta ai decisori politici.

Fingiamo allora che lei non sia più il presidente dell’Ordine dei geologi ma avesse in mano il governo della Regione: quali sono le prime cose che farebbe in ottica di prevenzione?

Intervenire sui versanti con rimboschimenti mirati, perché la vegetazione aiuta tantissimo a trattenere le piogge. La prima cosa da fare è ritardare il più possibile l’arrivo dell’acqua nei bacini in modo da limitare gli effetti delle piene. Se cementifichiamo tutto, l’acqua che parte dalla cima del versante arriva subito a valle, quindi dobbiamo trovare modi per rallentarla.

E in luoghi come Genova, dove le costruzioni occupano anche i versanti?

Si possono realizzare trincee drenanti in cui convogliare le acque superficiali in modo da infiltrarle nel sottosuolo, sottraendole al ruscellamento selvaggio. E quando si realizza un intervento edilizio, si può imporre la realizzazione di vasche di laminazione per raccogliere le acque che scorrono sulle superfici impermeabili. Il problema lo abbiamo creato noi nel tempo, non possiamo pensare di risolverlo in breve. Ci vorranno anni, sempre che poi il cambiamento climatico non prenda un’ulteriore accelerazione.

Autore
Genova24

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