Il piano di Super Mario serve solo a prolungare indefinitamente l’agonia dell’Europa

  • Postato il 20 settembre 2024
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Il rapporto Draghi sulla competitività sta facendo discutere com’è forse normale che sia, considerato il prestigio di cui gode il suo autore. E tuttavia, ci pare che la discussione sia eccessivamente incentrata sul contenuto del rapporto medesimo e non, invece, sul contesto all’interno del quale esso si inserisce. E quando scriviamo “contesto”, intendiamo il contesto storico ed economico, il contesto normativo e il contesto politico-psicologico-sociale.

Partiamo dal contesto storico ed economico: Draghi non lancia le sue “nuove” proposte nel vuoto di un eterno presente; anche se la sensazione, leggendo i giornali, è proprio questa. Il suo testo arriva a distanza di trentadue anni dalla nascita della Ue, con la ratifica del trattato di Maastricht del 7 febbraio del 1992, senza contare il tempo trascorso in precedenza per giungere fino a lì muovendo dalla Cee istituita nel 1957.

Ebbene, che bilancio possiamo trarre, sul piano storico-economico, del progetto europeista atteso che sotto i ponti ne è passata di acqua (e di storia) a sufficienza per consentirci un sereno giudizio? Il responso ci viene da tonnellate di studi, approfondimenti, statistiche e numeri – di ogni provenienza – tutti i quali, inconfutabilmente, dimostrano che l’Unione ha fallito su quasi tutti i fronti. Non solo non ha generato quel paradiso dove, lavorando un giorno in meno, avremmo guadagnato come se lavorassimo un giorno in più (Prodi dixit), ma ha generato un peggioramento delle condizioni economiche, della qualità della vita, del reddito pro capite di quasi tutti i cittadini europei.

Ma, ove non bastassero questi resoconti dal fronte di una tragedia collettiva, è lo stesso Draghi, nell’incipit del suo lavoro, a certificarla: “L’Europa si preoccupa del rallentamento della crescita dall’inizio di questo secolo. Si sono succedute varie strategie per aumentare i tassi di crescita, ma la tendenza è rimasta invariata. (…) Le famiglie europee hanno pagato il prezzo della perdita del tenore di vita. Su base pro capite, il reddito disponibile reale è cresciuto quasi il doppio negli Stati Uniti rispetto all’Ue dal 2000”. A questo punto, una domanda sorge spontanea. A fronte del fallimento di una “ricetta” di cui Draghi è stato uno dei massimi sponsor, sostenitori e attuatori, quale credibilità può avere la prescrizione di una “nuova” ricetta concepita, escogitata e prescritta dal medesimo dottore? Affidereste una squadra appena retrocessa allo stesso allenatore che ne ha causato il tracollo? Chiedereste un nuovo piano aziendale allo stesso consulente che ha mandato a picco, con i suoi consigli, la vostra impresa?

Questa elementare considerazione di carattere storico-economico sarebbe più che bastevole non solo per rispedire al mittente il piano Draghi, ma per suggerire a chi è ancora appassionato al processo unionista di affidare ad altri un’agenda per il rilancio. Ma ovviamente non è tutta colpa di Draghi. Quest’ultimo è solo uno (tra i più importanti) degli attori protagonisti che hanno creduto in un’idea alla radice sbagliata. Il che ci conduce al contesto normativo.

Chi meglio di Draghi può raccontarci quanto siano intrinsecamente non solo inique (per la loro accentuatissima torsione neo-liberista e ordo-liberista) le regole dei trattati europei? Visto che proprio l’ex Presidente della Bce, ci viene raccontato, salvò l’Europa con il famoso “Whatever it takes”. Vale a dire iniziando quel piano di raccolta massiccia, a tempo indeterminato, di titoli del debito pubblico (degli Stati membri della Ue) sui mercati secondari che risponde al nome di “quantitative easing”. E che rappresenta una forzatura dei trattati europei (cfr. articoli 123, 124, 125 del Trattato di Lisbona). Riassumendo: la storia ha bocciato il progetto europeista e nelle “leggi” di istitutive quest’ultimo vi è la scaturigine dei mali denunciati dal nostro.

Tuttavia, forse, il vero problema – di cui Draghi non si occupa minimamente nel suo report – è di carattere politico-psicologico-sociale. Che senso ha un’unione europea concepita alla stregua di un Super Stato? Diciamolo più chiaro: che “senso” ha per i suoi cittadini? Dov’è l’idem sentire di manzoniana memoria, da cui prorompe l’esigenza popolare (di tutti e di ciascuno) di fare, di un nugolo di paesi diversi, una Nazione che sia “una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor”? La risposta la conosciamo tutti. Ed in questa risposta vi è tutto quanto c’è da dire a proposito del rapporto Draghi.

L’unico modo per riformarla, l’Europa, è smontarla dalle fondamenta per ricostruirla da zero sulla base di premesse, intenzioni e regole completamente diverse. I ritocchi, come quelli cercati, o invocati, da Supermario, serviranno solo a prolungarne indefinitamente l’agonia. Di talché – ripensando alle parole dell’ex premier (secondo cui il report è “una sfida per l’esistenza dell’Ue”) – mai come in questa occasione dobbiamo augurarci di perdere la sfida. Dato che significherebbe, secondo Draghi, la fine di questa unione.

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Il Fatto Quotidiano

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