Il movimento Tishreen in Iraq venne represso con la forza sei anni fa: ancora oggi l’impunità resiste
- Postato il 20 ottobre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Nell’ottobre di sei anni fa il movimento di protesta noto come “Tishreen” agitò a lungo l’Iraq: le principali città del paese si riempirono di manifestanti soprattutto giovani e, purtroppo, anche di forze di sicurezza, che si resero responsabili di centinaia di morti, di migliaia di feriti e di un numero imprecisato di sparizioni forzate. Da allora sono state presentate 2700 denunce per violazioni dei diritti umani: poche sono arrivate fino a processo e le esigue condanne emesse sono state annullate.
A sei anni di distanza, l’impunità resiste ancora e le libertà di espressione e di manifestazione pacifica sono ancora duramente represse. L’entrata in vigore, quest’anno, di norme che vietano i “contenuti indecenti” ha causato l’aumento degli arresti per reati di opinione. Ancora oggi le persone più in vista del movimento “Tishreen” non trovano lavoro, altre sono costrette a nascondersi per evitare di finire in carcere e le loro famiglie ricevono “visite” intimidatorie da parte di funzionari della sicurezza irachena.
Yassin Majed Shehab, uno degli animatori del movimento, è stato arrestato meno di un mese fa, il 25 settembre. Era andato a trovare i genitori, in cattive condizioni di salute, nella casa di famiglia a Baghdad. Un parente ha raccontato ad Amnesty International cos’è accaduto:
“È arrivato alle 20 del 24 settembre. Alle tre del mattino si è presentato uno squadrone composto da polizia locale, funzionari dell’intelligence e forze di sicurezza, come se dovessero arrestare un pericoloso terrorista. Hanno sfondato la porta di casa a calci. La sorella di Yassin, incinta, è stata colpita alla testa mentre cercava di proteggerlo. Poi hanno picchiato lui, lo hanno trascinato fuori minacciando di arrestare anche noi. Hanno detto che lo avrebbero portato alla direzione dei servizi d’intelligence per interrogarlo. La mattina siamo andati lì ma lui non c’era”.
A Nassiriya, da quando un anno fa è stato nominato il nuovo capo della polizia, è iniziata quella che un’organizzazione locale per i diritti umani ha chiamato “una campagna vendicativa” fatta di irruzioni nelle abitazioni, minacce, arresti e accuse per reati che in alcuni casi comportano la pena di morte. Il nuovo capo della polizia ha riattivato 400 mandati d’arresto emessi nel 2020 cui non pensava più nessuno e che si riteneva fossero stati annullati.
Un attivista del movimento “Tishreen”, di cui non riveliamo il nome per proteggerlo da ulteriori rappresaglie, arrestato l’8 marzo di quest’anno, è stato condannato a 15 anni di carcere per l’uccisione di un manifestante: un’accusa fabbricata, basata su testimonianze estorte con la tortura. Un altro attivista, di cui non rendiamo noto il nome perché è in clandestinità, ha descritto ad Amnesty International come le famiglie dei promotori delle proteste dell’ottobre 2019 vivano nel terrore:
“Mia sorella dev’essere scortata quando va all’università e quando da lì torna a casa. Hanno minacciato di rapirla e stuprarla. Mio padre subisce intimidazioni e mobbing sul posto di lavoro. Le milizie [le Unità di mobilitazione popolare, una formazione paramilitare al servizio del governo] ci tengono d’occhio, lo sappiamo”.
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