Il Mostro – La serie Neflix. Dopo 40 anni la storia che incarna il male nella sua essenza è ancora irrisolta. Stefano Sollima: “Non so chi possa essere, ci sono cose che vorrei non aver mai visto”

  • Postato il 28 ottobre 2025
  • Crime
  • Di Il Fatto Quotidiano
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40 anni ci dividono dal suo ultimo efferato atto, eppure dal 1985 non si è mai smesso di parlarne. Sulle pagine di libri e giornali, nei palinsesti televisivi, in rete: il Mostro di Firenze è arrivato ovunque e, sempre in linea coi tempi, da pochi giorni (dopo la premiere ufficiale alla Mostra del Cinema di Venezia) è anche su Netflix. Raccontare questa vicenda, oggi, è forse ancor più complicato che 40 anni fa. Si rischia di trincerarsi nel radicalismo di teorie investigative, di perdersi in complessi scenari di indagine che non hanno mai portato a sciogliere l’arcano, a far cadere la maschera che copre, almeno in parte, il volto del Mostro di Firenze. Forse per questo la serie “Il Mostro” diretta da Stefano Sollima si svincola dall’aggrapparsi a una sola ipotesi, rifugge dall’ossessione investigativa che spesso colpisce quando ci si avvicina a certe storie. E soprattutto rinuncia a volerci indicare il vero volto dell’assassino, per raccontarci il Mostro che è in noi, che ha radici nell’Italia degli anni ‘50, quella del delitto d’onore, del matrimonio-ratto. La storia al centro della serie è sempre la stessa ma raccontata da quattro punti di vista diversi, mettendo al centro tutti coloro che sono stati sospettati di essere il mostro nelle primissime indagini. “La cosa che colpisce è che per quanto alcuni non fossero il mostro contenevano in sé delle mostruosità”: a dirlo è lo stesso Sollima.

La serie

“Il Mostro” è già in cima alla top ten dei contenuti più visti e non soltanto in Italia. Diretta dal regista che ha già conquistato gli appassionati del crime con serie come “Suburra” e “Romanzo Criminale”, questa mini-serie è tutta dedicata al serial killer che per quasi vent’anni ha seminato il terrore nelle campagne fiorentine. I delitti del mostro, lo ricordiamo, costarono la pelle a 16 vittime, assassinate in otto duplici omicidi di cui tre rimasti irrisolti. Tutti furono compiuti con la stessa pistola Beretta calibro 22 e tutti ai danni di coppie aggredite in momenti di intimità, mentre erano appartate in auto (tranne l’ultima, raggiunta in tenda). L’escalation di violenza fu tale che le forze dell’ordine lanciarono la campagna “Occhio ragazzi” con cui si tentò di dissuadere i più giovani ad appartarsi fuori città. “È stato un lavoro molto complesso, faticoso, soprattutto dal punto di vista emotivo. Questa è una storia terribile, tragica. Studiarla, anche solo vedere le immagini della scientifica è stato impegnativo, ci sono cose che non vorresti mai aver visto. Trovo fosse giusto e doveroso provare a raccontare quella storia”, ha dichiarato Sollima in una recente intervista al programma radiofonico “Deejay chiama Italia”. Sebbene per alcuni dei 16 omicidi la vicenda giudiziaria del Mostro è approdata a delle sentenze, ad oggi questa storia che sembra incarnare il male nella sua essenza, è ancora irrisolta.

La pista sarda

Questo racconto del Mostro privilegia di certo una parte della storia, l’antefatto che vede protagonista la pista sarda e che darà vita a una lunga vicenda giudiziaria poi scalzata dall’arrivo e dagli arresti dei cosiddetti Compagni di Merende. Parliamo degli intrecci familiari e amorosi del gruppo di sardi trapiantatisi in Toscana negli anni ‘50. Al centro di tutto ci sono i fratelli Francesco e Salvatore Vinci che nella serie hanno i volti di Valentino Mannias e Giacomo Fadda. Mancano nomi celebri nel cast ed è lo stesso a spiegare perché: “Se racconti una specificità culturale, non puoi ignorarla quando fai il cast e quindi recluti tutti attori, in questo caso, sardi. Li ho cercati, proprio come ho fatto già per “Romanzo criminale”, ho scelto attori bravissimi ma sconosciuti”. (fonte: Deejay chiama Italia). Al di là di ogni ragionevole dubbio rispetto alla vicenda storica in sé, questa trasposizione ha un merito ed è quello di non scivolare mai in una sovraesposizione della violenza, di ripudiare la cosiddetta pornografia del dolore. “Il mostro” non mostra i dettagli più cruenti di una storia che supera la più truce delle saghe horror se pensiamo alla furia con cui l’assassino (ammesso che fosse uno solo) si accanì sui corpi delle donne per le sue mutilazioni. La messa in scena degli omicidi è stata rappresentata sullo schermo quasi “per difetto”. Con un approccio equilibrato e non – altra scelta voluta – nei luoghi in cui sono realmente avvenuti. “Non abbiamo girato gli omicidi nei posti veri – ha sottolineato Sollima – per una questione di rispetto verso la storia. Tutto il resto di ciò che si vede, dai costumi alla scenografia, è ricostruito esattamente com’era: abbiamo girato nei posti reali a partire da casa De Felice dove Natalino andò a chiedere aiuto”, ha ribadito Sollima sempre nel corso dell’intervista a Linus e Nicola Savino.

Il piccolo Natalino

Natalino, lo ricordiamo, è l’unico sopravvissuto al Mostro di Firenze e forse il solo ad averlo incrociato quella notte del 22 agosto del 1968. Ma resta anche questa un’ipotesi perché non è chiaro, come non lo è nulla in questa storia, se il delitto di Signa sia stato il primo del Mostro di Firenze o se fosse slegato da tutti gli altri a venire (e in questo caso l’unico legame sarebbe l’arma con cui è stato compiuto). L’unica certezza è che quella notte vennero assassinati Barbara Locci e il suo amante Antonio Lo Bianco con otto colpi di pistola. Il piccolo Natalino è forse il protagonista assoluto di questa trasposizione televisiva dei delitti del Mostro. Al suo racconto è affidata una fetta consistente della narrazione. E anche se non è l’unica, la sua visione è di certo quella che più scuote, proprio perché passa attraverso gli occhi di un bambino. Aveva solo sei anni quando, nell’estate del ’68 in una stradina sterrata di Signa, nella campagna fiorentina, Natalino scese dall’auto e camminò in aperta campagna fino alla casa di Francesco De Felice. “Aprimi perché ho sonno e ho il babbo ammalato a letto. Dopo mi accompagni a casa perché c’è la mi’ mamma e lo zio che sono morti in macchina”, gli disse. Per i suoi pochi anni, la testimonianza del bambino non fu utile a ricostruire l’identikit dell’assassino all’epoca. Ma le amare sorprese non finirono quella notte per Natalino che solo recentemente ha scoperto di non essere figlio biologico del marito di Barbara Locci. Non era Stefano Mele suo padre ma Salvatore Vinci, altro personaggio centrale della serie.

Salvatore Vinci

Di Vinci “Il Mostro” mette in luce l’oscura complessità nonché la presunta bisessualità che emerge anche nel racconto del menage a trois, raccontato nella serie, con Barbara Locci e Stefano Mele. E se questa componente, qualora corrisponda alla realtà, oggi non rappresenterebbe certamente uno scandalo, resta un elemento di indagine interessante perché darebbe una nuova lettura della rete di rapporti all’interno della comunità sarda. C’è un passaggio spesso citato nel rapporto dei Carabinieri di Firenze del 1986 in cui si parla di “sessualità non esclusiva” in merito alle indagini sui duplici omicidi commessi nella provincia fiorentina dall’agosto del 1968 al settembre del 1985. E stando agli interrogatori del 1985, Stefano Mele confessò di aver avuto con Salvatore Vinci rapporti sessuali. Dagli stessi interrogatori emergerebbe la suavergogna, come chiave del mistero del ’68: “La vergogna che si sapesse che aveva avuto rapporti omosessuali con Salvatore Vinci” (fonte: Dolci colline di sangue di Mario Spezi).

Sollima sul Mostro di Firenze

Di Pacciani, Vanni e Lotti, i compagni di merende accusati di aver commesso alcuni dei delitti del Mostro, non c’è traccia nella serie se non nelle ultimissime battute. Elemento che sa tanto di anticipazione e che farebbe sperare, ma non è detto, in una seconda stagione. Quella dei compagni di merende non è la parte della storia che Stefano Sollima ha scelto di raccontare in questi quattro episodi in cui sono i flashback a guidare la trama. “Sono partito da quando il procuratore Silvia Della Monica nell’82 allarga la ricerca e riapre tutti i vecchi casi perché si rende conto che il killer è seriale. Decide allora di tornare indietro nel tempo e di cercare i delitti insoluti tra gli omicidi di coppiette. Così risalgono a quello del ’68 di Signa”: le parole sono sempre del regista. “Oggi non c’è un modo per raccontarle questa vicenda se non provando a raccontare tutte le tesi. Non si può puntare il dito contro nessuno. Questa storia è stata raccontata sempre in modo diverso, elencando i fatti che però sono sempre gli stessi. Quando vengono raccontati dal punto di vista degli investigatori c’è una sorta di peccato originale comune a molti, di vizio di fondo, in ognuna di queste indagini. Partono sempre dal voler dimostrare una tesi ma manipolano nell’esposizione gli elementi del reale. Non ho un’idea su chi possa essere il mostro, è impossibile averne una e non volevo fare lo stesso errore fatto da molti: avere la pretesa di dire: ‘io ho visto la luce quando tutti brancolano nel buio’”. (fonte: Deejay chiama Italia).

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